È la principale organizzazione politica e della società civile impegnata contro la guerra in corso nel paese
11 Febbraio 2025
Articolo di Redazione
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Abdalla Hamdok, leader del Tagadum. (Crediti:
International Hydropower Association, da Flickr)
In Sudan si è sciolta la più importante organizzazione politica e della società civile schierata contro la guerra e per l’instaurazione di un sistema democratico. Il contesto è quello di un conflitto fra i due principali apparati di sicurezza che nel paese prosegue dall’aprile 2023 e che in quasi due anni ha provocato una delle più gravi crisi umanitarie di sempre.
A causare la fine del Coordinamento dell’alleanza delle Forze Civili “Tagadum”, questo il nome dell’articolazione di cui si scrive, divisioni interne in merito alla possibilità di creare un governo in esilio nelle zone governate dalle Forze di supporto rapido (RSF), una delle due parti belligeranti nella guerra. A comunicarlo una nota dello stesso Tagadum.
Le RSF, milizia nota per la sua storia di genocidio e violazione dei diritti umani, si contrappone alle forze armate regolari sudanesi (SAF), pure accusate di numerosi crimini e abusi. Le organizzazioni sono guidate rispettivamente dai due “padri-padroni” del Sudan: il generale Mohamed Hamdan Dagalo detto Hemeti per quanto riguarda le RSF e il presidente de facto del Sudan, il generale Abdal Fattah al-Burhan, per quanto concerne l’esercito.
A confermare con «tristezza» la divergenza a monte dello scioglimento di Tagadum è stato il portavoce dell’organizzazione, Bakry Eljack, che in un’intervista rilanciata dal portale Sudan Tribune ha annunciato: «Tagadum non esiste più e io non sono più il portavoce di questo organismo». Elijack ha spiegato che all’interno del comitato ci sono state discussioni sulla «questione della legittimità (in Sudan) e sul concetto di stabilire un governo come uno dei mezzi accettati per affrontare questo problema».
La parabola di Hamdok
A capo della coalizione Tagadum vi si trovava l’economista Abdallah Hamdok, già primo ministro nell’ambito di un governo di transizione misto civile-militare che era stato creato dopo la caduta del trentennale regime di Omar al-Bashir nel 2019 e aveva cui ha messo fine, nell’ottobre 2021, un golpe condotto da al-Burhan, già alla guida della componente militare dell’esecutivo in questione. In quell’occasione i militari avevano anche arrestato Hamdok.
L’ex premier è poi tornato brevemente in una posizione di potere un mese dopo l’arresto, in seguito a un nuovo accordo tra militari e civili. Alla fine Hamdok si è dimesso a gennaio 2022, ammettendo di aver fallito nel ridare il potere ai civili e a fronte della violenta repressione delle proteste popolari contro i militari che erano esplose dopo il golpe.
La spaccatura sul governo in esilio
La decisione di sciogliere Tagadum è stata presa a partire dalla costatazione che l’idea di un governo in esilio aveva creato una spaccatura: il Fronte rivoluzionario sudanese (SRF), che comprende anche gruppi armati del Darfur, rappresentava la parte del blocco a favore dell’iniziativa.
«L’opzione appropriata – si legge quindi nel comunicato di Tagadum – è di separare le due parti in modo che ciascuna possa operare sotto una piattaforma politica e organizzativa separata con due nuovi nomi diversi». Ogni partito. prosegue la nota, «ora potrà agire come ritiene opportuno e in linea con la propria visione della guerra, le strade per risolverla, per raggiungere una pace globale e duratura, stabilire un governo democratico civile sostenibile».
La roadmap del governo
I sommovimenti di cui si scrive scuotono la società civile proprio mentre ministero degli Affari esteri e Forze armate comunicano una tabella di marcia per la creazione di un nuovo governo di guerra (ma che potrebbe includere anche civili), chiedendo per questo il sostegno dell’Unione africana, delle Nazioni Unite e della Lega araba, nonché di altre organizzazioni internazionali. La roadmap è stata presentata dopo delle consultazioni con alcuni partiti politici.
L’esercito e il governo ufficiale sudanese si sono fatti forza alla luce delle conquiste territoriali degli ultimi mesi ai danni dell’RSF. In modo particolare, gli avanzamenti nella capitale Khartoum, occupata dalla milizia agli ordini di Hemeti fin dalle prime settimane di conflitto. L’esecutivo del generale al-Burhan si è di fatto trasferito a Port Sudan finora. Il possibile ritorno nella capitale sembrerebbe essere una delle condizioni più importanti per la nascita di un nuovo esecutivo.
Nel paese, il conflitto scoppiato lo scorso 15 aprile ha provocato la morte di decine di migliaia di persone, lo sfollamento di oltre 12 milioni e la fuga all’estero di più di tre milioni. Più della metà della popolazione sudanese di circa 50 milioni di abitanti necessita di aiuto umanitario mentre oltre otto milioni di persone vivono una condizione di insicurezza alimentare definita come «emergenziale» e dall’Integrated Food Security Phase Classification (IPC). Le proiezioni elaborate dallo stesso ente mostrano come le persone che affrontano una condizione emergenziale «catastrofica» potrebbe arrivare a essere oltre 630mila entro maggio.
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