Il tema del computo del periodo di prova nei contratti a termine ha da sempre sollevato ampie discussioni tra esperti e giuristi del lavoro. Non solo la complessità delle implicazioni pratiche, ma anche le numerose incertezze interpretative hanno reso tale argomento uno dei più dibattuti e spinosi.
Con l’entrata in vigore del Decreto Legislativo n. 104/2022 (c.d. Decreto Trasparenza) è stato offerto un primo tentativo di disciplinare la materia, stabilendo che la durata del periodo di prova nei rapporti di lavoro a termine dovesse essere “proporzionale” alla durata del contratto e alla natura delle mansioni (art. 7, comma 2, D.lgs. n. 104/2022). Questa previsione rispondeva a un principio europeo espresso nella Direttiva Ue 2019/1152, che impone agli Stati membri di garantire che tale periodo sia «proporzionale alla durata prevista dal contratto e alla natura dell’impiego».
Tuttavia, nonostante l’intenzione di offrire una regola chiara, il legislatore del 2022 non ha fornito un preciso criterio di calcolo della durata del periodo di prova: come si computava concretamente la “proporzionalità”? E così i dubbi hanno continuato a rimanere.
La recente riforma, attuata con l’entrata in vigore della Legge n. 103/2024 (c.d. Collegato Lavoro), cerca di risolvere il problema, ma alcune ombre permangono. Vediamo.
L’art. 13 del Collegato Lavoro sembra, all’apparenza, semplice e chiaro: “Fatte salve le disposizioni più favorevoli della contrattazione collettiva, la durata del periodo di prova è stabilita in un giorno di effettiva prestazione per ogni quindici giorni di calendario a partire dalla data di inizio del rapporto di lavoro“.
Poi la norma prosegue dicendo: “In ogni caso la durata del periodo di prova non può essere inferiore a due giorni né superiore a quindici giorni, per i rapporti di lavoro aventi durata non superiore a sei mesi, e a trenta giorni, per quelli aventi durata superiore a sei mesi e inferiore a dodici mesi“.
Letta questa ultima parte della norma, l’imprenditore frettoloso potrebbe allora pensare: “se stipulo un contratto di lavoro che non supera i sei mesi, ci metto un bel patto di prova di 15 giorni: il massimo consentito dalla legge“. Non è così. In primo luogo, la norma fa salve le disposizioni stabilite dalla contrattazione collettiva: bisogna pertanto verificare previamente se il Ccnl applicato stabilisce già la durata del periodo di prova per i contratti a tempo determinato (e in questo caso bisogna attenersi a quanto indicato).
Peraltro, anche nell’ipotesi in cui il contratto collettivo applicato nulla dica, usando il criterio di quantificazione indicato dal Collegato Lavoro, la durata del periodo di prova per un contratto di lavoro di sei mesi non risulta essere di 15 giorni – come indica la norma -, ma di 12 giorni (6 mesi di calendario sono circa 180 giorni, che divisi per i 15 giorni di cui parla la legge fanno 12 giorni). Lo stesso vale per i contratti a tempo determinato di durata non superiore a 12 mesi: la durata massima del patto di prova usando il criterio di computo dell’art. 13 è di 24 giorni, non di 30 come indicato dalla legge.
E qui casca l’asino. Il problema non è tanto lo scarto tra i giorni (3 giorni in un caso e 6 dall’altro), quanto le conseguenze che derivano dall’errato computo della durata del periodo di prova. Se si considera che normalmente i datori di lavoro comunicano il recesso dalla prova in genere in prossimità della fine del periodo di prova stesso (sia per verificare sino all’ultimo le capacità del lavoratore, sia perché la giurisprudenza insegna che la prova deve essere regolarmente e compiutamente esperita), intimare il licenziamento durante la prova oppure quando la prova è scaduta e si pensa che non lo sia conduce a conseguenze drasticamente diverse.
Il licenziamento in prova non deve essere motivato, produce effetto immediato, non comporta nessun preavviso, e non implica rischi di reintegrazione o risarcitori. Il licenziamento non in prova per ragioni organizzative, deve essere motivato, deve dare conto della soppressione della posizione lavorativa e dell’impraticabilità della ricollocazione del lavoratore, deve dare un preavviso e se illegittimo comporta la reintegrazione.
Quindi (e per semplificare): se un datore di lavoro licenzia un lavoratore pensandolo ancora in prova (quando in realtà la prova è già finita qualche giorno prima a norma di legge), la conseguenza è molto onerosa e gravosa per l’imprenditore. Bisogna pertanto fare i conti bene, ovvero usare il parametro di computo indicato dalla legge (e non fidarsi del “massimo” indicato dalla legge).
C’è poi un altro problema. Qual è la durata massima del periodo di prova per i contratti a tempo determinato di più di 12 mesi? Il Collegato lavoro non lo dice. Prudenzialmente, e in attesa di eventuali chiarimenti da parte del Legislatore o del ministero del Lavoro, è meglio usare il criterio di computo indicato dall’art. 13 (1 giorno di effettivo lavoro ogni 15 giorni di calendario). Per evitare “trappole” (e i conseguenti dolori).
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