Le frodi nei finanziamenti all’agricoltura

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Le frodi nei finanziamenti all’agricoltura

Il delitto di cui all’articolo 2 della legge n. 898 del 1986 punisce

chiunque, mediante l’esposizione di dati o notizie falsi, consegue indebitamente, per sé o per altri, aiuti, premi, indennità, restituzioni, contributi o altre erogazioni a carico totale o parziale del Fondo europeo agricolo di garanzia e del Fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale.

La pena prevista per il delitto è aumentata quando il danno o il profitto sono superiori a euro 100.000.

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Nel 2007 il Feoga è stato sostituito da due nuovi fondi: il Fondo europeo agricolo di garanzia (Feaga) e il Fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale (Feasr).

Successivamente, il d.lg. 156/2022 ha disposto l’introduzione del comma 3-bis, secondo il quale nei casi di condanna o di patteggiamento per il delitto in esame, si osservano le disposizioni contenute negli articoli 240-bis e 322-ter c.p. (confisca), in quanto compatibili.

Alle erogazioni a carico dei Fondi appena menzionati sono assimilate le quote nazionali previste dalla normativa comunitaria a complemento delle somme a carico di detti Fondi, nonché le erogazioni poste a totale carico della finanza nazionale sulla base della normativa comunitaria.

La disposizione punisce – a stretto rigore – la condotta di conseguimento dell’erogazione ma non quella della c.d. “ritenzione illecita” di fondi erogati.

Con la sentenza di condanna, il giudice determina l’importo indebitamente percepito e ordina al colpevole alla restituzione di esso all’amministrazione che ha disposto l’erogazione.

La responsabilità dell’ente

Il d.lg. 75/2020, di recepimento della Direttiva P.I.F., ha inserito il delitto nell’art 24 del d.lg. 231/2001 (“indebita percezione di erogazioni, truffa in danno dello Stato/ente pubblico/U.E. per il conseguimento di erogazioni pubbliche, frode informatica in danno dello Stato/ente pubblico e frode nelle pubbliche forniture”), tra i reati presupposto della responsabilità dell’ente.

All’ente sono applicabili le medesime sanzioni già previste nell’art. 24: pecuniaria fino a 500 quote (in caso di profitto rilevante tratto dal reato o danno grave subito dall’ente pubblico: da 200 a 600 quote) e interdittive ai sensi dell’art. 9 comma 2, lett. c), d) ed e).

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Il menzionato art. 2 fa salva la possibilità che il fatto configuri il più grave reato previsto dall’articolo 640-bis c.p. (truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche), a sua volta reato-presupposto.

In definitiva, l’art. 640-bis c.p. trova applicazione laddove il soggetto attivo non si limiti a esporre dati falsi, ma faccia ricorso ad ulteriori “malizie” costituite da modalità ingannevoli diverse al fine di indurre in errore il soggetto passivo (analogamente a quanto si afferma in giurisprudenza in tema di rapporti tra la truffa aggravata e l’indebita percezione di finanziamenti pubblici ex art. 316-ter c.p.).

Tra gli “ulteriori artifizi o raggiri” la giurisprudenza di legittimità ha annoverato la formazione e allegazione di documenti falsi, ritenendo che l’art. 2 copra solo la mera “esposizione di dati e notizie falsi”.

Una precisazione: quando la somma indebitamente percepita è pari o inferiore a 5.000 euro si applica soltanto la sanzione amministrativa prevista nella medesima legge (e, pertanto, non entra in gioco il decreto legislativo 231).

Va aggiunto che la legge n. 898, all’art. 3, prevede che, “indipendentemente dalla sanzione penale e qualunque sia l’importo indebitamente percepito, per il fatto indicato nei commi primo e secondo dell’articolo 2, il percettore è tenuto, oltre alla restituzione dell’indebito, al pagamento di una sanzione amministrativa pecuniaria pari all’importo indebitamente percepito”.

Nella giurisprudenza di legittimità è principio pacifico quello secondo il quale la legge de qua, agli artt. 2 e 3, prevede, per la medesima fattispecie, rispettivamente, un reato e un illecito amministrativo, con conseguente doppia punibilità alla quale va applicato il cumulo materiale fra sanzioni di diversa specie (Cass., n. 1933 del 1998; n. 24 del 1999; n. 1081 del 2007) (cfr. pure Corte costituzionale 8 marzo 2018, n. 84 di inammissibilità di una questione di legittimità costituzionale in tema di ne bis in idem).

Sotto questo profilo, non rileva che il fatto ex art. 2 possa, eventualmente, integrare, in via alternativa, il più grave delitto previsto dall’art. 640-bis c.p., perché ai fini dell’illecito amministrativo rileva solo che il fatto descritto nell’art. 2 sia stato commesso, quale che sia la qualificazione ad esso attribuita (Cass., II, 16 settembre 2010, n. 19591).

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Ha, più di recente, aggiunto la S.C. (Cass. civ., II, n. 10459/2019) che “la sanzione amministrativa di cui all’art. 3 della legge n. 898 del 1986 non è equiparabile, alla luce della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, a quella penale per qualificazione giuridica, natura e grado di severità, sicché la doppia punibilità prevista dagli artt. 2 e 3 della l. n. 898 citata non integra una violazione del principio del “ne bis in idem”, con conseguente irrilevanza di un’eventuale questione di costituzionalità”

Bisognerà, ad avviso di chi scrive, rivalutare tale interpretazione alla luce della nuova responsabilità da reato dell’ente per evitare un bis in idem a carico di quest’ultimo (sanzione amministrativa ex art. 3 e sanzione ai sensi del d.lg. 231).



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