Sanità e tempi di attesa, i soldi da soli non bastano

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Parlandone scolasticamente si tratta di un “banale” squilibrio tra domanda e offerta: la domanda di prestazioni sanitarie dentro il Servizio sanitario nazionale (SSN) è superiore alla offerta che il SSN mette in campo, con la conseguenza che chi ha i soldi trova soluzione nelle prestazioni in intramoenia dentro il SSN oppure uscendo dal SSN (a pagamento), mentre chi non li ha aspetta o rinuncia alle cure. Si sta ovviamente parlando di cosa c’è dietro la lunghezza dei tempi di attesa per accedere alle prestazioni sanitarie.



Quanto è grande questo disequilibrio? L’intramoenia non è tanta roba (qualche miliardo di euro: ne abbiamo parlato anche da queste colonne); l’uscita dal SSN è valutata in alcune decine di miliardi; il difficile è invece stimare chi decide di aspettare (ma quanto? settimane, mesi, o addirittura anni?) o, peggio ancora, chi decide di rinunciare alle prestazioni. In sintesi: per quanto solo parzialmente noto il disequilibrio è sicuramente molto grande.

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Sempre in termini scolastici la soluzione prevede tre alternative: un aumento della sola offerta, una riduzione della sola domanda, un contemporaneo aumento dell’offerta e concomitante diminuzione della domanda. “Elementare Watson”, come sostiene aulicamente la letteratura (o “facile”, come più prosaicamente fa credere la pubblicità), ma proviamo a vedere in pratica le tre ipotesi.

Aumento della sola offerta. L’aumento dell’offerta implica innanzitutto un aumento delle risorse (economiche, di personale, di strumenti, di organizzazione, ecc.), aumento che deve però essere adeguato alla dimensione dello squilibrio (e non la ridicola disponibilità dello 0,4% del fondo sanitario, cioè circa 600 milioni di euro, che le Regioni stanno chiedendo in questo momento al Governo per le liste di attesa).



Nessuno dei diversi Governi che si sono succeduti da quando c’è il SSN (perché non si tratta di un problema solo di oggi) ha però dimostrato di sentirci da questo orecchio e gli eventuali aumenti economici (quando ci sono stati) non sono mai risultati nemmeno lontanamente paragonabili allo squilibrio e hanno sempre veicolato il messaggio che di risorse non ce ne sono abbastanza. Ma se ci fossero le risorse economiche il problema non sarebbe automaticamente risolto perché occorrerebbe poi trovare il personale che eroga i servizi, personale che oggi già manca (infermieri, …), o che mancherà domani (medici, …), o che si sta orientando (per diversi motivi) a uscire dal SSN (e addirittura andando anche all’estero).

E poi serviranno nuovi strumenti, ulteriori spazi per erogare i servizi, modifiche organizzative nella rete di offerta (allargamento degli orari, ridefinizione dei rapporti con il privato accreditato, miglioramento dell’efficienza erogativa, riduzione degli sprechi, ecc.), e così via: insomma, in primis per la mancanza di risorse ma non solo, l’ipotesi che lo squilibrio tra domanda e offerta di prestazioni possa essere colmato agendo solo sul lato dell’offerta mostra tutte le sue difficoltà e le sue criticità, e quindi non è una soluzione che risulta praticabile, o meglio non è una soluzione che risolve il problema.

Riduzione della sola domanda. Lo sviluppo demografico che sta caratterizzando il nostro Paese, e in particolare l’allungamento della vita media e l’aumento numerico dei soggetti che identifichiamo con il termine di anziani, porta inevitabilmente a un naturale aumento della domanda di prestazioni sanitarie, aumento per altro aggravato dall’insorgere di una mentalità (che qui non approfondiamo) che spinge verso una maggiore medicalizzazione della propria vita e che si traduce nell’aumentato ricorso alla richiesta di prestazioni sanitarie anche quando non sarebbero necessarie. Nella domanda di prestazioni di oggi sono però presenti, oltre alle naturali conseguenze della demografia, diversi altri fenomeni che potrebbero essere modificati o eliminati, e la cui esistenza dà invece luogo alla attuale quantità di prestazioni richieste.

Sono tutte necessarie queste prestazioni? Sono tutte appropriate? Molti segnali portano a dire che la domanda di prestazioni può essere significativamente ridotta senza che ciò porti alcun peggioramento dello stato di salute della popolazione e dei suoi singoli componenti oppure nocumento o interferenza al percorso di cura del paziente: la cosiddetta “medicina difensiva”, alla luce della quale vengono richieste prestazioni il cui scopo prevalente è quello di proteggere il prescrittore da eventuali azioni di rivalsa da parte di pazienti che si ritengono non adeguatamente curati o seguiti, che alcune valutazioni stimano nell’ordine delle decine di miliardi;

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la ripetizione degli stessi esami quando si passa da una struttura a un’altra; la possibile inappropriatezza di alcune prestazioni ambulatoriali ma anche di alcune tipologie di ricoveri; l’utilizzo inadeguato della struttura ospedaliera per attività che potrebbero essere proficuamente svolte dal medico di medicina generale o dalla assistenza territoriale; l’empowerment del cittadino che lo porta a richiedere (e spesso a pretendere) prestazioni di cui non c’è bisogno; ecc.

Ma oltre agli interventi sulle citate criticità, per ridurre la domanda si possono percorrere anche vie molto più impegnative e pesanti come la revisione (al ribasso) dei livelli essenziali di assistenza (riduzione delle prestazioni ritenute essenziali, riduzione dei farmaci presenti nel prontuario, …) oppure l’introduzione di un universalismo condizionato e selettivo che renda espliciti i criteri con cui alcuni soggetti (per alcune prestazioni) non possano godere delle coperture previste dal SSN, evitando così che tale esclusione avvenga (come è oggi) come esito di un razionamento implicito, non trasparente e soprattutto iniquo.

A parte però l’elenco di questi potenziali interventi, sul tema dell’eccesso di domanda quello che manca è una stima della attività che potrebbe essere ridotta senza dar luogo ad alcun nocumento, oppure di quanta di questa domanda non produce alcun beneficio, al singolo o alla popolazione. In questo caso la difficoltà consiste nella messa in campo di azioni efficaci che portino al governo della domanda, con la conseguenza che tali azioni non risultano in grado di creare un reale equilibrio tra domanda e offerta.

Da quanto fin qui descritto, anche se rappresenta solo una parte esemplificativa delle attività che si possono mettere in atto, appare evidente come la soluzione al problema dei lunghi tempi di attesa non possa che passare attraverso la combinazione dei due percorsi (riduzione parziale della domanda e contemporaneo aumento dell’offerta), il che si porta necessariamente dietro la somma delle problematiche che sono state elencate.

E poiché la complessità, ovvero il combinarsi di molte ragioni e difficoltà, è all’origine del problema, origine che implica l’affronto di questioni che competono sia allo Stato (LEA, universalismo, finanziamento, formazione, ecc.) che a tutti gli altri livelli di governo (Regioni, ASL, singoli erogatori, ecc.) e di azione fino ai singoli cittadini, occorre dubitare di chi offre facili soluzioni attraverso singoli provvedimenti che finiscono solo con l’essere “specchietti per le allodole” senza alcuna reale prospettiva di produrre cambiamenti sostanziali.

Se non vogliamo crearci delle illusioni, da una parte, ovvero alimentare inutilmente il fuoco delle lamentele, dall’altra, occorre mettere seriamente mano a una profonda riforma dell’intero SSN, senza la quale non sarà possibile fare alcun passo avanti per il miglioramento dei tempi di attesa delle prestazioni sanitarie.

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