Elon Musk guardò con diffidenza il prototipo giallo del Pono che Neil Young gli stava mostrando. “Non possiamo avere dei fili in auto”, disse seccamente il miliardario, troncando sul nascere ogni discussione. Era il 2014, e in quella frase c’era tutto quello che non andava nell’industria tecnologica dell’epoca. La comodità stava vincendo sulla qualità, l’estetica sulla sostanza, e nessuno sembrava preoccuparsene, in un mondo sempre più ossessionato dalla velocità e dalla semplicità d’uso.
L’ossessione per un mondo senza fili e senza porte, una battaglia voluta da Steve Jobs e vinta anche e soprattutto post mortem, ha portato a sacrificare molto più di quanto si pensasse, in una corsa sfrenata verso una presunta modernità che ha lasciato sul campo vittime illustri. Non sono stati solo i cavi a sparire, ma anche i dettagli sonori, le sfumature, la profondità della musica, tutto quello che rendeva l’ascolto un’esperienza piena e coinvolgente. La qualità dell’ascolto è stata immolata sull’altare della portabilità, ed è stata una scelta deliberata, supportata da un settore commerciale che ha visto nel download prima e nello streaming poi la gallina dalle uova d’oro.
I numeri del progetto Pono parlavano chiaro: 6,2 milioni di dollari raccolti su Kickstarter, una delle campagne di crowdfunding di maggior successo di sempre, con migliaia di sostenitori pronti a scommettere su un futuro migliore per la musica digitale. C’era fame di qualità, allora. C’era voglia di ascoltare la musica come doveva essere ascoltata, come veniva registrata in studio, come gli artisti l’avevano pensata. La comunità degli appassionati era pronta a sostenere questa rivoluzione sonora, ma il mercato di massa aveva altri piani.
La sindrome di Stoccolma dell’audio
Le recensioni negative a Pono si sono susseguite come una cascata, alimentate da un pregiudizio che sembrava quasi premeditato, come se l’alta fedeltà fosse diventata improvvisamente un vezzo da snob. “Snake oil”, gridavano i titoli dei giornali tech, “olio di serpente”, cioè il modo di dire degli americani per indicare i prodotti realizzati dai truffatori che giravano sui carri il Far West per vendere balsami impossibili che curavano tutte le malattie. Come se la ricerca della qualità fosse una truffa in sé, come se voler ascoltare la musica nella sua pienezza fosse una pretesa assurda. Il mercato ha premiato la mediocrità sonora, trasformandola in uno standard de facto, mentre Spotify conquistava il mondo non offrendo la migliore qualità, ma la maggiore convenienza.
In buona sostanza, ci siamo abituati al peggio, sviluppando una sorta di sindrome di Stoccolma dell’audio che ha portato a considerare normale l’ascolto di file compressi fino all’inverosimile utilizzando cuffiette bluetooth con una banda passante per i dati e dei driver per il suono che rende l’esperienza simile all’uso di un barattolo di latta come sorgente sonora. Le orecchie si sono adattate alla compressione e alla minuscolosità degli apparecchi riproduttivi, al punto che molti ascoltatori oggi preferiscono il suono compresso a quello ad alta fedeltà, come prigionieri che hanno imparato ad amare le loro catene sonore. Questa deriva ha influenzato persino il modo in cui la musica viene prodotta, con artisti e produttori che ormai mixano pensando alle casse microscopiche degli smartphone.
Il paradosso tecnologico
Tutto questo potrebbe avere un senso, se non fosse che non ce l’ha. Perché avviene in un solo ambito, non in tutti. Mentre i display diventavano sempre più nitidi e le telecamere dei telefoni sempre più sofisticate, l’audio faceva il percorso inverso, in un paradosso che grida vendetta. La tecnologia avanzava in ogni settore, ma per qualche motivo che ai più non è dato sapere, la qualità del suono doveva rimanere ancorata a standard obsoleti, come se il progresso dovesse fermarsi proprio sulla soglia del nostro udito. I test A/B, tanto sbandierati per dimostrare l’inutilità del Pono, erano viziati alla base, come chiedere a qualcuno cresciuto a fast food di apprezzare la cucina gourmet.
La verità, lo ribadiamo, è che l’industria musicale ha scelto la strada più facile: vendere la comodità invece della qualità, in una corsa al ribasso che ha impoverito l’esperienza musicale di un’intera generazione. C’è un’intera generazione, quelli che potremmo chiamare schematicamente “i giovani di oggi”, che non ha mai conosciuto il piacere di un ascolto ad alta fedeltà. Sono persone cresciute nell’era degli auricolari bluetooth e dello streaming a basso bitrate o dei vinili suonati con impianti alquanto discutibili e agganciati magari a casse wireless. È stata una vittoria di Pirro, che ha sacrificato l’essenza stessa della musica registrata sull’altare della convenienza.
L’eredità del Pono
Cosa è rimasto di Pono? Poco più di niente. Oggi gli archivi di Neil Young offrono lo streaming in alta qualità e ad alto prezzo, ma è una magra consolazione in un panorama dominato dalla mediocrità sonora. Il danno è stato fatto, e il pubblico non sembra più interessato a distinguere tra un file MP3 e un master studio, tra un’esperienza d’ascolto immersiva e un sottofondo sonoro qualsiasi. La produzione musicale si è adattata a questa nuova realtà degradata, creando brani pensati per suonare “bene” su auricolari bluetooth economici, in una spirale discendente che sembra non avere fine.
Tuttavia, il successo del vinile negli ultimi anni non è un caso: dimostra che esiste ancora fame di un ascolto più profondo e coinvolgente, di un’esperienza musicale che vada oltre la semplice riproduzione di frequenze. È un segnale che forse non tutto è perduto, che c’è ancora spazio per una rivoluzione della qualità audio. Il Pono potrebbe essere stato semplicemente troppo avanti per i suoi tempi, come spesso accade ai pionieri. E altri impianti simili, che mancano però di una base comune, potrebbero avere altrettanto senso ma hanno meno mercato.
Infatti, la battaglia per la qualità audio sembra persa, ma forse è solo rimandata a tempi migliori, quando la saturazione di contenuti di bassa qualità porterà a una naturale ricerca di esperienze più autentiche e coinvolgenti. Proviamo a dirlo, dieci anni dopo? Ci prendiamo questo rischio? Ebbene, Neil Young aveva ragione su tutta la linea, ma aveva torto sui tempi: era troppo presto per una rivoluzione del genere, il mercato non era pronto ad abbandonare la comoda mediocrità dello streaming di massa. Dopo la sbornia degli mp3 pirata a bassissima qualità che hanno decimato il mercato discografico tradizionale a cavallo del nuovo millennio e poi la reazione con la nascita degli store a basso bitrate, era ancora presto per osare di più.
Verso il futuro
Guardando indietro a quell’esperimento, il player a forma di Toblerone che è stato sfottuto per anni da migliaia di troll online, i soliti leoni della tastiera, viene da chiedersi se non si sia persa un’occasione irripetibile per indirizzare diversamente l’evoluzione della musica digitale. Il Pono poteva essere l’inizio di un percorso diverso, di un’alternativa colta alla corsa verso l’ignoranza della bassa qualità audio. Ma forse non tutto è perduto: nuovi servizi di streaming ad alta risoluzione continuano a nascere. Attenzione, non i remaster fatti automaticamente dall’AI con suono artificialmente pompato e strumenti che compaiono un po’ ovunque, a casaccio, in un’idea di spazialità sonora che ricorda un incubo frutto di una cattiva digestione più che allo studio di gente musicalmente preparata. No, parliamo di altre cose, cose serie. Perché una nuova generazione di ascoltatori sta riscoprendo il piacere dell’alta fedeltà.
La qualità tornerà a essere importante, prima o poi, quando ci si stancherà di questa dieta audio a base di fast food sonoro. Le orecchie sono come le bocche: vanno educate. Se ascoltano (o mangiano) porcherie dalla mattina alla sera, poi si abituano e ne vogliono ancora di più. Ma la musica di buona qualità come esperienza audio esiste, così come esiste la buona cucina. E forse, un giorno non troppo lontano, qualcuno riprenderà in mano quella bandiera che Neil Young ha dovuto ammainare. Perché la musica merita di essere ascoltata come è stata pensata, registrata e prodotta, non come la vogliono le multinazionali dello streaming. Il fallimento del Pono potrebbe essere stato solo l’inizio di una storia più lunga, di una battaglia per la qualità che non è ancora finita.
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