Intervista a Daniele Novara: «Genitori, mollate i figli!»

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Da prima che nascesse il mondo si parla di adolescenti e di crisi in quell’età. In tanti li hanno giudicati, etichettati, qualche volta condannati. Il pedagogista Daniele Novara prova con un libro “pratico” ad allargare lo sguardo guardando ai ragazzi in rapporto ai genitori e a come quest’ultimi si comportano con i figli: Mollami! Educare i figli adolescenti e trovare la giusta distanza per farli crescere (Rizzoli) diventa così una guida preziosa per genitori ed educatori, uno strumento concreto per vivere l’adolescenza con la giusta distanza e serenità. Pagine che possono essere passibili di punti di vista differente, di critica intelligente, di interrogativi che destano curiosità. Abbiamo posto alcune di queste domande a Daniele Novara in un’intervista schietta, senza peli sulla lingua.

Gli adolescenti di oggi sono uguali a quelli di ieri? Ai loro padri e madri a 14-15 anni?

«Per quanto i contesti cambiano nel tempo, l’adolescenza è sempre uguale perché si tratta di uno stato della crescita e dello sviluppo umano. Nel libro racconto episodi, assolutamente adatti per i giorni nostri, di ragazzi e ragazze che adesso sono madri e padri, a ulteriore dimostrazione di come, nel tempo, le situazioni di fondo rimangano sostanzialmente identiche.
Non sono i ragazzi e le ragazze a essere cambiati, ma piuttosto sono i genitori che hanno perso la motivazione educativa e si sono incautamente posti in una logica di amicalità, immedesimazione e addirittura intimità con i propri figli.
È il frutto dell’epoca narcisistica che stiamo vivendo, iniziata negli anni ‘90, nella quale il limite spesso non è contemplato. Il punto è che qualsiasi ragazzo o ragazza necessita della dimensione del confine per poter trovare le sfide da affrontare e per superare le prove della vita. Oggi i genitori faticano ad accettare che la crescita abbia bisogno di una resistenza educativa e si pongono sempre più alla pari con i propri figli. I ragazzi e le ragazze continuano a fare quello che hanno sempre fatto ma i genitori sono persi e faticano a comprendere come, arrivata l’adolescenza, non siano più di fronte a bambini ma a ragazzi che li sfidano apertamente.
Come diceva Donald Winnicott (pediatra e psicoanalista), gli adolescenti non hanno bisogno di essere capiti dagli adulti, hanno bisogno di allontanarsi, fare la loro vita, cercare la loro libertà».

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Lei parla di silenzio attivo ma loro soffrono di solitudine. Non c’è il rischio di isolarli?

«Il silenzio attivo, di cui parlo anche nel mio nuovo libro, è una tecnica creata molti anni fa, che ha una lunga storia e una sperimentazione decisamente positiva. Non mi azzarderei a dare queste indicazioni se non fossi sicuro di muovermi su un terreno di efficacia e di utilità.
Entrando nel merito, gli adolescenti non desiderano un continuo colloquio con i genitori ma, giustamente, vogliono confronto con i coetanei. Per questo, a fronte di una tendenza a cercare il dialogo a ogni costo, nel momento in cui vengono superate le condizioni di rispetto reciproco che devono sempre esserci tra figli, figlie e genitori, l’utilizzo di una tecnica di comunicazione paradossale come quella del silenzio attivo è efficace. Consiste nel sospendere la comunicazione, nel non parlare per segnalare che c’è un semaforo rosso e non si può andare oltre. Ovviamente, come ho sempre ribadito, deve essere utilizzata con parsimonia per sottolineare la gravità dell’episodio. È particolarmente efficace nella fase iniziale dell’adolescenza, tra i 12 e i 15 anni, mentre perde di efficacia con l’avvicinarsi della maggiore età».

Nel suo libro scrive che gli adolescenti non sono pazienti psichiatrici. La loro fase di crescita prevede comportamenti che a volte sembrano bizzarri, altre trasgressivi, spesso disfunzionali ma molti di loro hanno bisogno di uno psicologo. Non è una contraddizione?

«L’adolescenza non può essere considerata una malattia. Se ci fosse uno screening psichiatrico su tutti gli adolescenti, avrebbe un alto indice clinico perché siamo di fronte a una età di profonda disconnessione celebrale, nella quale la corteccia prefrontale non ha ancora preso il controllo delle altre aree del cervello, in special modo dell’area limbica. Per questo, in generale, i comportamenti adolescenziali, pur non essendo sempre del tutto volontari, non possono essere considerati patologici.
Poi non nego che la possibilità di disporre di psicoterapia può essere utile ma, dal mio punto di vista, i ragazzi e le ragazze hanno più bisogno di colloqui di counseling, maieutici, piuttosto che incontri dove il punto di partenza sia la loro collocazione psichiatrica e clinica.
Molti e molte hanno bisogno di essere ascoltati da figure diverse da quelle genitoriali, piuttosto che giudicati.
Ovviamente quando i problemi vanno oltre una certa dimensione, esiste la medicina che in questo caso si chiama psichiatria. Ma non deve essere l’approccio principale, quello privilegiato. Sarebbe un enorme equivoco. La carenza che si vive ora è quella educativa».

Nel rapporto di Fondazione Con I Bambini si cita che “Tre adolescenti su 10 trascorrono online più di 10 ore al giorno (mentre secondo i genitori il tempo trascorso on line sarebbe meno della metà, quasi il 40% dichiara fra 5 e 10 ore) ma il 62% degli adolescenti prediligerebbe le relazioni in presenza nei rapporti con i coetanei”. L’online tuttavia è il loro nuovo codice, il loro strumento per connettersi, per relazionarsi!

«Non condivido l’affermazione che l’on-line sia il loro nuovo codice e strumento per relazionarsi. È chiaro che gli adolescenti vivono in una società profondamente digitalizzata e che ogni individuo cresce e sviluppa le sue abitudini in base a dove nasce. Nonostante questo, i bisogni reali rimangono sempre gli stessi: sensoriali, di sincronizzazione neurocorporale, di esperienze concrete con occhi, gambe, mani e braccia.
Non possiamo pensare che tutto quello che è nuovo risponda ai bisogni profondi delle generazioni che si susseguono nel corso del tempo. La storia dimostra che in tante occasioni ciò che è stato proposto ai ragazzi e alle ragazze, dal bellicismo visto come opportunità all’adesione ad associazioni giovanili interne a regimi totalitari, era semplicemente sbagliato.
In questo contesto, considero l’invadenza digitale un grave pericolo per il cervello di un adolescente, un problema molto serio e che ancora non viene affrontato con la dovuta decisione. Troppo spesso le politiche messe in atto dai vari governi hanno accarezzato il marketing delle multinazionali piuttosto che pensare alla crescita delle nuove generazioni».

“L’epidemia di malattie mentali tra gli adolescenti è iniziata intorno al 2012” afferma Haidt. E non è un anno casuale: l’arrivo dello smartphone è del 2007, l’avvento dei pulsanti mi piace e condividi sui social del 2009. A una decina di anni di distanza da questo debutto, le ricerche hanno cominciato a registrare quelli che, secondo Jonathan Haidt, sono i danni diretti di questa tecnologia”. Anche lei ha fatto una battaglia contro l’uso degli schermi. Come bisogna comportarsi? Serve la negoziazione di cui lei parla nel libro?

«L’affermazione di Jonathan Haidt, autore del libro La generazione ansiosa (Rizzoli), è legittima, anche se da pedagogista non l’ho mai declinata nella logica dell’aumento delle malattie mentali anche perché si tratta di un dato molto controverso non esistendo delle comparazioni precise.
Quello che è certo è l’aumento della contrazione sociale e dell’isolamento dei ragazzi, avvenuto con l’arrivo degli smartphone. Paradossalmente, mentre la pubblicità vendeva uno strumento per avere una massima connessione “sociale”, la realtà è andata nella direzione opposta e ha portato bambini e bambine, ragazzi e ragazze a ritirarsi nelle proprie camerette e a passare tanto tempo in solitudine davanti ai videoschermi. Assistiamo così a un progressivo spegnimento di quella che è la dimensione più naturale dell’adolescenza: il gruppo di pari.
In questo contesto, per genitori già fragili nel comprendere il proprio ruolo, è diventata una tragedia riuscire a gestire questa fortissima invadenza del business hi-tech. Nel mio nuovo libro consiglio alcune tecniche, come quella del paletto, ma serve che anche la politica e i governi si muovano per dare un reale sostegno.
Un consiglio per i padri e le madri. È fondamentale evitare l’utilizzo notturno di tablet e smartphone perché questo sta causando cali nel sonno e nella concentrazione che portano una progressiva compromissione delle capacità di ragionamento».

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Nel suo libro parla della figura della “mamma che deve ristrutturare il suo posizionamento lasciando che la figura del padre, quando presente o del paterno, quando assente, prenda il front office educativo ossia una certa preminenza nella loro gestione direttiva”. Non pensa invece che debbano avere entrambi un ruolo alla pari soprattutto in questa società definita ancora patriarcale da molti?

«Non penso che il superamento della società patriarcale, obbiettivo assolutamente giusto e condivisibile, possa essere la società matriarcale o addirittura la società del maternage infinito che risulta essere uno degli elementi più depressivi per i nostri ragazzi e ragazze. Non può essere la sola madre a occuparsi della crescita di un adolescente, troppo spesso lasciata completamente sola.
La mia proposta di convergenza educativa sul padre implica, ovviamente, un gioco di squadra dove il front office viene gestito dal padre (o da chi assume il codice paterno) e dove la madre (o chi assume il codice materno) fa un passo indietro senza ovviamente scomparire. Quando c’è una coppia, agire in modo coeso e concordato è imprescindibile, ma durante l’adolescenza bisogna evitare gli eccessi emotivi e le tendenze di protezione estrema che sono tipici del codice materno.
Una considerazione simile a quella che faccio, a parti invertire, rispetto ai primi anni di vita durante i quali il codice materno deve essere predominante e sostituzioni in questo senso non sono assolutamente auspicabili.
Ogni età ha le sue caratteristiche e i genitori devono avere il coraggio di assumersi i propri ruoli capendo, in un giusto gioco di squadra, quale sia il codice migliore per sostenere i figli e le figlie nella loro ricerca di autonomia e di libertà».

Nel suo libro sembra un po’ giustificare gli adolescenti ma non siamo di fronte ad una generazione che si presenta talvolta aggressiva?

«Se parliamo di aggressività verso sé stessi, di autolesionismo, la mia risposta è positiva. Se invece guardiamo a quella verso l’esterno, forse tendiamo a dimenticaci del passato e di generazioni che avevano fatto dell’aggressività la loro bandiera. Spesso giustificata con varie appartenenze politiche o ideologiche.
Certo, il fenomeno dei ragazzi, maschi in primis, che si gettano nelle risse, magari con coltelli alla mano, è un fenomeno nuovo e che deve essere monitorato. La nostra percezione, però, viene ingigantita dall’apparato mediatico sempre più incline a rilanciare notizie di questo tipo e che ci rimanda un quadro diverso da quello che è in realtà. Oltretutto, contestualizzando, bisogna ricordare che in questi ultimi tre anni i nostri adolescenti sono stati bombardati da un immaginario di guerra, dall’Ucraina alla Palestina, e da videogiochi che sdoganano l’uso di armi.
Troppo spesso il termine “conflitto” viene equiparato al concetto di guerra mentre dovrebbe essere chiaro come le nuove generazioni abbiano un estremo bisogno di imparare a litigare bene, a gestire bene le contrarietà che sono una parte naturale di tutte le nostre relazioni.
Dobbiamo aiutare le nuove generazioni ad imparare ad accettare i conflitti, le divergenze di opinioni e le differenze di punti di vista. Arrivando a trovare la positività nel dialogo e a superare i momenti di contrarietà accettando l’esistenza degli altri e rifiutando l’approccio violento che è, a tutti gli effetti, la negazione di ogni forma di comunicazione. Lo dico da tutta la mia vita professionale: i conflitti sono il miglior antidoto alla violenza ed imparare ad accettarli e a gestirli è una capacità sempre più importante per avere relazioni sane».



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