Meloni come Arlecchino – infosannio

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La premier si ritrova tra l’incudine della fedeltà sovranista all’amico Donald, e il martello dell’ interesse nazionale che la lega ai suoi vicini: è la geopolitica bellezza

(Gigi Riva – editorialedomani.it) – Anteponendo l’ideologia all’interesse nazionale e alla geografia, Giorgia Meloni ora annaspa, spiazzata com’è dal correre veloce degli eventi, impiccata alle parole di ieri in netta contraddizione con i fatti di oggi. E nella situazione scomoda di dover sconfessare se stessa o rinnegare il suo vate sovranista Donald Trump. Comunque vada sarà un insuccesso.

Arrivata al potere, ha cercato una legittimazione americana per far dimenticare certe posture da ragazza di Colle Oppio, schierandosi con l’altra America, quella di Joe Biden, per il sostegno senza se e senza ma, finché fosse stato necessario, con l’Ucraina aggredita dall’energumeno del Cremlino. Schlein: «Meloni decida con chi stare: o l’Ue o il cappellino di Trump»

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Mutato lo scenario, si è repentinamente trasformata nella pulzella di Mar a Lago, proponendosi nientemeno come mediatrice tra le due sponde dell’Atlantico senza considerare che i sovranismi hanno un difetto d’origine iscritto nel nome e non contemplano che se stessi, tanto che la dizione “internazionale sovranista” è intrinsecamente un ossimoro. Soprattutto ha commesso l’errore politico di non comprendere che, con il plutocrate alla Casa Bianca, non sarebbe più esistito un solo occidente, ma al minimo due. Inconciliabili.

A meno di un mese dall’insediamento, Trump si è già sbarazzato degli inutili inciampi che si frappongono tra lui e i soli che considera suoi pari, cioè i reggenti di grandi potenze come la Russia, con cui trattare direttamente i destini del pianeta per poi imporre le scelte in virtù della supremazia militare. L’Europa, il terreno su cui pure si combatte da tre anni la guerra, cancellata da ogni tavolo nonostante abbia speso nel suo insieme, tra aiuti e forniture belliche, più di Washington.

L’Europa ridotta all’insignificanza perché adagiata nel sogno della pace perpetua kantiana, attaccata, chissà ancora per quanto, ai suoi valori, ai diritti umani e civili che sembrano non avere più alcuna cittadinanza nella terra del suprematismo bianco. L’Europa trattata da sguattera a cui imporre dazi come fossero un risarcimento per averla prima liberata e poi protetta, senza considerare il vassallaggio strategico che è stata la moneta di scambio della supposta “generosità”.

L’Europa che, per dignità, aveva il dovere di reagire alzando un argine a tanta tracotanza e nel tempo più breve possibile, visto che in Arabia Saudita già cominciano le grandi manovre di Washington e Mosca per imporre a Kiev una pace ingiusta, una pace putiniana. Non deve stupire che l’iniziativa sia partita dall’indirizzo più credibile, dalla Francia che, per un riflesso della grandeur, nel 1966 decise con Charles de Gaulle l’uscita dal comando Nato per poter perseguire la propria autonomia nelle scelte della difesa. Poi nel 2003 con Jacques Chirac che si oppose con fierezza alla guerra di Bush in Iraq.

Non per grandeur o per sciovinismo, oggi tocca a Emmanuel Macron alzare non già il tricolore ma la bandiera blu stellata del Vecchio Continente. Certo in parte per prestigio personale dato che lascerà poco meno che cinquantenne l’Eliseo e ambirebbe alla poltrona di primo presidente di una futuribile Unione europea, ma in parte perché i tempi sono cambiati e la Francia malconcia non può nulla senza l’appoggio dei tradizionali partner continentali.

Giorgia Meloni si è trovata, e torniamo all’inizio, tra l’incudine della fedeltà sovranista all’amico Donald, e il martello dell’ interesse nazionale che la lega ai suoi vicini: è la geopolitica bellezza. Un Arlecchino servitore di due padroni. Per districarsi nel labirinto in cui si è cacciata ha agito da signora tentenna, la posizione più scomoda per un primo ministro con attitudini decisioniste.

Ha fatto filtrare, e il verbo è eloquente, una “contrarietà” alla mossa di Macron, con cui peraltro non si mai trovata in sintonia. Avrebbe preferito la convocazione di un Consiglio europeo straordinario, dimentica delle critiche rivolte in passato alle liturgie troppo paludate di Bruxelles (e comunque non si capisce perché non l’abbia sollecitato se ne sentiva la necessità). Ha puntato l’indice sull’assenza di alcuni attori.

Come se non fossero sufficienti, nell’urgenza delle decisioni, i capi di governo di Francia, Germania, Regno Unito, Italia, Polonia, Spagna, Olanda, Danimarca, i presidenti del Consiglio europeo e dell’Unione europea, oltre al segretario generale della Nato. Alfine si è decisa a prendere un aereo per Parigi, non prima tuttavia di un consulto telefonico con l’amato Donald. Estremo tentativo di essere sia di qua sia di là. Dimentica dell’aforismo di Seneca: «Chi è ovunque non è in nessun luogo».

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