il cortocircuito della sentenza su Delmastro

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La sentenza di condanna di Delmastro smentisce una delle motivazioni a sostegno della riforma della separazione delle carriere. E cioè che la contiguità tra pm e giudice porterebbe il secondo ad appiattirsi sulla tesi del primo. Il caso Delmastro attesta l’opposto

Eravamo stati i primi a evidenziare che Andrea Delmastro aveva commesso un illecito, rivelando a Giovanni Donzelli, deputato di Fratelli d’Italia, il contenuto di conversazioni tra l’anarchico Alfredo Cospito e alcuni membri della criminalità organizzata, detenuti al 41-bis.  Donzelli aveva poi reso pubbliche tali conversazioni durante un suo intervento alla Camera.

La configurazione che avevamo dato dell’illecito era evidentemente corretta. I giudici del tribunale di Roma hanno condannato in primo grado il sottosegretario alla Giustizia a otto mesi di reclusione per rivelazione di segreto d’ufficio, applicando la pena accessoria dell’interdizione per un anno dai pubblici uffici e concedendo il beneficio della sospensione condizionale della pena e della non menzione nel casellario giudiziale.

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La storia

Pochi giorni dopo la divulgazione da parte di Donzelli di passaggi delle conversazioni, il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, aveva dichiarato in parlamento che le informazioni in questione non erano coperte da segreto di stato. Avevamo spiegato che su tali informazioni vigeva un’altra forma di segreto, quello amministrativo, che imponeva comunque a Delmastro un obbligo di riservatezza su quanto appreso in ragione del proprio ufficio.

Nel maggio 2023, la procura di Roma aveva chiesto l’archiviazione per Delmastro. Pur riconoscendo che i contenuti rivelati erano coperti da segreto amministrativo, la procura riteneva che mancasse l’elemento soggettivo, cioè la consapevolezza di Delmastro che si trattasse di contenuti non divulgabili. La giudice per le indagini preliminari non aveva accolto la richiesta della procura, disponendo l’imputazione coatta. La giudice per l’udienza preliminare aveva poi deciso il rinvio al giudizio del sottosegretario.

Avevamo chiarito i motivi per cui la difesa di Delmastro apparisse fragile e lacunosa. Non era evidentemente credibile la mancanza dell’elemento soggettivo, e cioè che egli ignorasse la riservatezza di quanto comunicato a Donzelli, dato il suo ruolo al ministero della Giustizia e la qualifica di avvocato penalista. Né, per i medesimi motivi, era plausibile che Delmastro – il quale affermava che «la limitata divulgazione nulla c’entra col segreto di stato» – non sapesse che il segreto da considerare in questo caso non fosse quello di stato, ma quello amministrativo, con i conseguenti obblighi a suo carico. 

Peraltro, il sottosegretario evidentemente non considerava che continuare a sostenere la propria inconsapevolezza circa la sussistenza del segreto amministrativo gli nuoceva dal punto di vista politico: tale inconsapevolezza avrebbe forse consentito di giustificare la sua innocenza, ma di certo attestava la sua inadeguatezza al ruolo svolto.

Le parole di Nordio

«Sono disorientato ed addolorato per una condanna che colpisce uno dei collaboratori più cari e capaci. Confido in una sua radicale riforma in sede di impugnazione e rinnovo all’amico Andrea Delmastro la più totale ed incondizionata fiducia», ha dichiarato il ministro della Giustizia Carlo Nordio, commentando la sentenza del tribunale di Roma.

Chissà se il Guardasigilli troverà il modo di considerare che la decisione odierna smentisce una delle motivazioni a sostegno della riforma della separazione delle carriere, da lui fortemente voluta.

E cioè che la contiguità tra la parte che svolge la funzione dell’accusa, il pm, e quella che svolge la funzione giudicante sarebbe idonea a creare fra di esse uno spirito corporativo, minando l’efficienza e l’equilibrio del sistema, che verrebbe invece garantito da una separazione assoluta. In altre parole, l’appartenenza di giudici e pm alla stessa “famiglia” condizionerebbe i primi, determinandone così l’appiattimento sulle tesi dei secondi. La decisione del caso Delmastro attesta l’opposto. Ma non è tutto.

«Spero che ci sia un giudice a Berlino. Se mi dimetterò? No, perché aderisco alla tesi della procura della Repubblica», ha dichiarato Delmastro, dopo la sentenza. Una procura, tra le figure solitamente bistrattate dalle parti del governo, assurge ora a soggetto dietro cui trincerarsi a comprova della propria innocenza, ma soprattutto per giustificare la scelta di non dimettersi. Il cortocircuito che la sentenza di giovedì 20 febbraio ha innestato sul piano politico non mancherà di produrre effetti rilevanti.

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