L’autonomia differenziata sembrava destinata a ridisegnare l’assetto delle politiche pubbliche in Italia. Per anni ha goduto di un consenso trasversale tra le forze politiche, sostenuta da governi di diverso orientamento, senza mai generare un vero scontro. Solo con l’accelerazione impressa dal governo Meloni e con l’approvazione della legge Calderoli, il tema è diventato fortemente divisivo, per logiche di schieramento politico, fino a degenerare in una rissa in Parlamento.
Il verdetto della Consulta, chiudendo la strada all’autonomia differenziata nella forma in cui era stata concepita, avrebbe dovuto spingere chi l’ha osteggiata a interrogarsi su quale alternativa proporre per migliorare l’attuale assetto delle relazioni Stato-Regioni. E invece, archiviato lo scontro politico, rientrata la prospettiva di una campagna referendaria, il dibattito si è dissolto, riportandoci a una normalità fatta di immobilismo su un tema che invece dovrebbe essere centrale: quale assetto territoriale e istituzionale serve all’Italia per garantire politiche pubbliche efficaci ed eque?
Il nodo da sciogliere è se il Paese sia davvero in grado di attuare, finalmente, il federalismo fiscale simmetrico e cooperativo previsto dalla legge Calderoli del 2009. Una riforma che prevedeva di bilanciare l’autonomia regionale, uguale per tutte le Regioni, con un rafforzamento delle funzioni dello Stato su tre fronti essenziali: la definizione e il finanziamento dei livelli essenziali delle prestazioni per garantire pari diritti in tutto il Paese; un meccanismo di perequazione finanziaria per evitare che i diritti dei cittadini dipendano dalla residenza; e investimenti aggiuntivi per le aree più deboli, con l’obiettivo di ridurre i divari di sviluppo.
Quel modello di federalismo si è arenato soprattutto per problemi di finanza pubblica. Per realizzarlo sarebbe stato necessario mobilitare risorse che sono mancate: l’inasprimento delle politiche di bilancio dopo la crisi finanziaria e la stagione dell’austerità hanno reso impossibile finanziare i meccanismi di perequazione previsti dalla riforma. Oggi il problema si ripropone: sono tornati gli obiettivi di consolidamento fiscale imposti dai vincoli europei e il margine di manovra per finanziare una riforma strutturale come il federalismo fiscale si è ulteriormente ridotto.
L’alternativa è un ripensamento del Titolo V della Costituzione. Ancora oggi si parla della riforma del 2001 come del “nuovo” Titolo V, ma dopo più di vent’anni appare evidente che quel modello è stato pensato per un mondo che non esiste più. Spinta dai calcoli elettorali del centro-sinistra, quella riforma si basava sulla convinzione che un forte decentramento fosse la strada per modernizzare il Paese, rendendo più efficiente l’azione pubblica e avvicinando le decisioni ai cittadini.
Quell’impostazione appare ormai superata. Nel contesto attuale, profondamente diverso da quello di vent’anni fa, servono più Stato e più Europa, non meno. Gli anni della pandemia hanno dimostrato quanto sia cruciale una governance nazionale forte in settori come la sanità e la protezione sociale. Le sfide globali come quelle della competitività o del cambiamento climatico richiederebbero un’azione pubblica più incisiva addirittura a livello sovranazionale. In questo quadro, limitarsi a discutere di maggiore o minore autonomia regionale significa non affrontare il vero problema: come rendere più efficiente ed equo il sistema pubblico nel suo complesso.
Non si può più rinviare il confronto sull’organizzazione territoriale dello Stato, perché dalla sua efficienza dipende la qualità delle politiche pubbliche per la competitività e per i diritti di cittadinanza. Senza un dibattito chiaro e un progetto condiviso, l’Italia rischia di trovarsi di nuovo di fronte a una riforma imposta dalle circostanze, priva di una direzione precisa e incapace di correggere le storture del regionalismo attuale.
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