Caso Delmastro, una pax tra i poli sulla giustizia politica

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È tornato fortemente d’attualità nelle ultime ore il tema della presunzione di innocenza, specialmente in seguito al caso del sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro. Delmastro, esponente di spicco del partito di governo, è stato condannato a otto mesi di carcere per rivelazione di segreto d’ufficio nel caso Cospito. Avrebbe cioè passato al suo compagno di partito Giovanni Donzelli documenti riservati.

La sentenza, che è giunta a seguito di un lungo iter giudiziario, ha sollevato un acceso confronto tra le forze politiche, con un’ampia difesa di Delmastro da parte del centrodestra. La sua condanna non è passata inosservata nemmeno all’interno del governo: la stessa premier Giorgia Meloni si è schierata con forza a favore di Delmastro, dichiarando che egli non dovesse dimettersi, ritenendo che la sentenza fosse, in effetti, frutto di una sorta di accanimento politico, una visione condivisa da gran parte dei suoi alleati. In tale contesto, Delmastro ha ripetutamente sostenuto di essere vittima di una sentenza che non rispecchia la realtà dei fatti, parlando di una sorta di “giustizia politica” che lo avrebbe colpito ingiustamente.

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Nel difendere Delmastro, il centrodestra ha sottolineato che la condanna non comporta necessariamente l’impossibilità di continuare a svolgere il suo ruolo istituzionale, anzi, diversi esponenti politici hanno indicato che si tratta di una questione strettamente personale e non legata alla sua capacità di governare o rappresentare i cittadini. Questa posizione, tuttavia, ha suscitato anche delle critiche, in particolare da chi ha ritenuto che la difesa del sottosegretario fosse espressione di un trattamento diverso rispetto ad altri casi in cui il governo, sotto la guida della stessa Meloni, ha adottato posizioni differenti, come nel caso della ministra del Turismo, Daniela Santanchè. Santanchè, infatti, è stata rinviata a giudizio con accuse piuttosto gravi, tra cui quella di truffa ai danni dello Stato ma, nonostante le implicazioni legali di tale accusa, la reazione della Meloni è stata ben più cauta rispetto a quella nei confronti di Delmastro. Infatti, mentre per quest’ultimo la difesa è stata tempestiva e decisa, per Santanchè la posizione della premier è apparsa più sfumata, con un minore sostegno pubblico e un atteggiamento che sembrava più distaccato, probabilmente per non compromettere ulteriormente la sua immagine. Questo contrasto nelle reazioni del governo ha suscitato dubbi tra gli osservatori e critiche da parte di chi ha ritenuto che la premier stesse operando una difesa selettiva, rischiando di minare la coerenza della sua politica.

Le accuse mosse contro Daniela Santanchè sono tutt’altro che leggere. La sua imputazione, che riguarda truffa e danno erariale, è gravissima e riguarda presunti raggiri ai danni dello Stato, con fondi pubblici che sarebbero stati mal gestiti o addirittura sottratti in maniera fraudolenta. La questione solleva interrogativi sulle modalità con cui i membri del governo rispondono alle difficoltà legali e se sia opportuno che una persona sotto indagine continui a ricoprire un ruolo ministeriale. La difesa della Meloni nei confronti di Delmastro, tuttavia, ha finito per sollevare una riflessione più ampia sulla politica delle dimissioni e sul rispetto della presunzione di innocenza, un principio fondamentale del nostro ordinamento giuridico. Se, infatti, il governo sembra difendere i suoi uomini accusati di reati, come nel caso di Delmastro, è necessario che la stessa posizione venga assunta anche nei confronti di chi è accusato di reati altrettanto gravi, come nel caso di Santanchè, che, per quanto non condannata, è comunque sotto processo per fatti che potrebbero avere conseguenze molto serie.

Il principio della presunzione di innocenza è sancito dalla Costituzione italiana e da numerose convenzioni internazionali, ma la sua applicazione nella politica è spesso dibattuta. È infatti difficile trovare un equilibrio tra la difesa dei diritti individuali e la necessità di garantire la credibilità delle istituzioni. Le dimissioni di un esponente pubblico accusato di reati sono sempre un argomento delicato, poiché potrebbero essere percepite come un atto di responsabilità, ma anche come una resa alla pressione mediatica e politica. In questo senso, sarebbe auspicabile una sorta di “pax” tra i due schieramenti, una convergenza che faccia prevalere il rispetto per la presunzione di innocenza, un principio che dovrebbe valere per tutti e che, soprattutto, dovrebbe applicarsi fino al primo grado di giudizio. Questo approccio consentirebbe di evitare che l’immagine di un politico venga compromessa prematuramente e, al contempo, impedirebbe che delle carriere vengano rovinate da accuse che, in alcuni casi, potrebbero non trovare riscontro nei fatti. È accaduto più volte, infatti, che figure politiche siano state travolte da scandali legali, solo per essere successivamente assolte o scagionate da prove insufficienti, ma nel frattempo la loro carriera era già stata danneggiata irrimediabilmente.

Se l’obiettivo è tutelare la credibilità delle istituzioni e difendere la giustizia, sarebbe più utile accordarsi su una linea comune: nessuno dovrebbe dimettersi da un incarico pubblico fino a una condanna definitiva, evitando che la politica venga influenzata dalle dinamiche giudiziarie e viceversa. In altri termini, un avviso di garanzia, un rinvio a giudizio o una condanna solo in primo grado non dovrebbero comportare l’obbligo delle dimissioni. Solo così si potrebbe evitare che accuse ancora tutte da provare diventino uno strumento per la delegittimazione politica. In tal modo si restituirebbe dignità al principio fondamentale che ogni persona è innocente fino a prova contraria e i magistrati e gli altri nemici dell’autonomia della politica avrebbero le armi spuntate nei loro sistematici tentativi di condizionare in modo spregiudicato e scorretto l’andamento della vita pubblica.




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