Il problema del calcio italiano è che è una nobile decaduta che non vuole saperne di prendere atto della realtà. Si comporta ancora come se avesse i soldi per comprare Maradona, Zidane, Ronaldo. Invece non li ha. E, tranne rari casi (pensiamo all’Atalanta, ma anche al Como), non ha la mentalità, né le strutture societarie (ma dovremmo dire aziendali) per costruire il talento. Per interiorizzare il concetto che dietro le squadre dev’esserci un progetto societario chiaro, pluriennale, basato sulla scoperta e sulla valorizzazione del talento. E affidato a una guida tecnica che non deve essere messa in discussione alle prime contrarietà.
La crisi del calcio italiano è ormai un appuntamento fisso. Ogni sei mesi, più o meno, ci si ritrova al capezzale del malato. L’ultima volta era stata dopo il disastro dell’Europeo. La ricetta alla fine è sempre la stessa: lasciare che il tempo passi. Senza che nulla cambi. Eppure la settimana nera della Champions potrebbe portare consiglio. Non è un caso che Atalanta, Milan e Juventus siano state mandate a casa da una squadra belga (il Bruges) e due olandesi (Feyenoord e Psv). È arduo sostenere che il calcio belga e olandese stiano meglio del nostro. C’è una differenza. Loro non hanno velleità da Real Madrid o Manchester City. Lavorano sulla formazione e la valorizzazione dei giovani. Ma giovani veramente. Al massimo di 21 anni. Non come da noi che si è giovani quasi a vita.
Per mantenersi in vita devono produrre talento, formarlo, allenarlo a giocare con velocità e intensità e poi venderlo. Come dimostrano Bakayoko del Psv (21 anni); Chemsdine Talbi del Bruges, che ha segnato la doppietta che ha steso l’Atalanta, ne ha 19. E Redmond il 18enne con cui il Feyenoord ha rimpiazzato il messicano Gimenez venduto proprio al Milan. Quei club hanno un business plan. Un orizzonte. Un progetto.
Qual è invece il progetto del Milan? O della Juventus? Con la coppia Maldini-Massara, il Milan aveva intrapreso una strada: l’acquisto di giovani forti e da valorizzare, come Theo, come Leao. Come lo stesso De Ketelaere (pagato di più) che il tempo e Gasperini hanno rivalutato. La fortuna aiuta gli audaci e infatti hanno vinto uno scudetto che forse non era in programma così presto. Dopodiché quella strada è stata smantellata. Che cos’è oggi il Milan? Dove vuole andare? Nessuno lo sa. La società è distante. Tutto è stato dato in gestione a Ibrahimovic. Il mercato invernale è tornato quello classico italiano: giocatori prossimi alla pensione (Kyle Walker) o grandi nomi che non hanno mantenuto le promesse e vivacchiano (Joao Felix).
Lo stesso vale per la Juventus. Anche qui la società è distante. Destrutturata per usare un termine gastronomico. Dov’è l’orizzonte futuro nella gestione della Juventus? La NextGen è stata smantellata. Hanno speso una tombola per calciatori tremendamente sopravvalutati come Koopmeiners ma anche lo stesso Nico Gonzalez. Si sono impelagati nello strano affare Douglas Luiz. Per non parlare della vicenda Kolo Muani. Che tutto è tranne che un affare. È un’operazione ai limiti del vassallaggio. La riserva di lusso di un grande club europeo che viene parcheggiata in Italia per evitarne il deprezzamento. Il Psg ha trattato la Juventus come se fosse un club minore. Gli ha affidato in prestito secco il francese. La Juve non solo glielo valorizza (come sta avvenendo) ma gli paga pure il ricco stipendio. E manda in panchina un certo Vlahovic strapagato alla Fiorentina e a cui è stato concesso uno stipendio da 12 milioni netti come se fosse Benzema. L’insensatezza imprenditoriale spiegata benissimo. Potremmo parlare anche della gestione tecnica di Yildiz cui prima viene data la numero 10 come se fosse Del Piero e poi nelle partite che contano sta più in panchina che in campo.
Potremmo proseguire. L’Inter (ancora una società distante, impersonale) che spende 40 milioni per Frattesi che non gioca mai. La Roma – i Friedkin sono tutt’altro che presenti – spende trenta milioni per Soulé (una follia per chi ha giocato un anno a Frosinone) e poi non lo fa giocare perché tutto ancora ruota giustamente attorno a Dybala. Lo stesso Napoli di De Laurentiis è passato dalla scoperta di Kim e Kvaratskhelia – fondamentali nella conquista dello scudetto – ai trenta milioni e ai sei d’ingaggio per Lukaku anni 31.
Ci sarebbe l’obiezione: ma l’Atalanta? Perché anche l’Atalanta è andata a casa. È l’eccezione. Loro hanno un progetto chiaro, che portano avanti da anni con determinazione. E che adesso sta arrivando al capolinea per quel che riguarda la guida tecnica. Ma l’Atalanta non morirà con Gasperini. I business plan, quelli veri, non dipendono mai da una sola persona.
Quindi, ricapitolando. Club destrutturati. Mancanza di visione e progettualità. Aggiungiamo: penuria di soldi. I proventi del calcio italiano restano aggrappati alla torta sempre meno calorica dei diritti tv. E per non perdere qualche spicciolo, ci si tiene il campionato a venti squadre. Altro che non allenante. Almeno il 50% delle partite hanno un interesse pari allo zero virgola. Il l ivello agonistico è basso per poi accorgersi che in Europa intensità e velocità sono parole d’ordine inderogabili.
A questo aggiungiamo il deficit di competenze. In Italia sono sempre meno le figure professionali che studiano e vivono di calcio. Il calcio è professionismo. Necessita di conoscenze. La figura di direttore sportivo è da anni in declino. Anche per il debordare di presidenti dall’ego ipertrofico convinti di essere tuttologi. E quindi di poter farne a meno.
Tralasciamo l’aspetto strutture (ma andate a guardarvi lo stadio dell’Everton: lo hanno realizzato veramente, e che stadio) e dedichiamo le ultime righe a una sana autocritica. Che riguarda la comunicazione. I media. Il giornalismo. Lo spirito critico è il sale della democrazia. Quasi nessuno lo ricorda ma senza quel giornalismo feroce con ogni probabilità il Mondiale dell’82 non lo avremmo vinto. E nemmeno quello del 2006. Se date uno sguardo ai giornali inglesi, stanno letteralmente togliendo la pelle a un certo Pep Guardiola. Il Telegraph lo ha invitato a prendersi un anno sabbatico. A Madrid Ancelotti viene massacrato al primo pareggio dopo aver vinto due Champions in tre anni. Da noi gli allenatori e i protagonisti sono ipercoccolati, trattati come quei bambini vizia ti che alla prima contrarietà alzano la voce e se ne vanno. La Juve di Motta e Giuntoli ne è un fulgido esempio, anche se non l’unico. Il giornalismo morbido non fa bene al calcio italiano. Alimenta narrazioni distorte che finiscono con l’essere nocive. Perché i risvegli possono essere bruschi e dolorosi. Come abbiamo visto in settimana.
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