Sanità, Gimbe: “Il 7,8 per cento delle famiglie liguri ha rinunciato a curarsi. La spesa privata è di 824 euro pro-capite”

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Secondo i dati Istat relativi al 2023, in Liguria, il 7,8% delle famiglie ha dovuto rinunciare a una o più prestazioni sanitarie. Questo valore supera la media nazionale, che si attesta al 7,6%, posizionando la regione al nono posto in Italia. A livello territoriale, la percentuale varia dal 5,1% della Provincia Autonoma di Bolzano fino al 13,7% della Sardegna.

Coloro che possono permetterselo, invece, ricorrono a risorse proprie per coprire le spese sanitarie e in Liguria la spesa pro-capite ammonta a 824 euro, secondo i dati del sistema tessera sanitaria utilizzato per la dichiarazione dei redditi. Questo valore colloca la regione al settimo posto a livello nazionale (media italiana di 730 euro), con la Lombardia al vertice con 1.023 euro e la Basilicata all’ultimo posto con 377 euro.
Questi dati sono stati presentati durante il Report dell’Osservatorio Gimbe sulla spesa sanitaria privata in Italia nel 2023, realizzato su incarico dell’Osservatorio Nazionale Welfare & Salute (Onws) e illustrato nei giorni scorsi presso il Cnel.

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In Italia la spesa sanitaria privata delle famiglie ha superato i 40 miliardi di euro nel 2023, registrando un incremento del 26,8% tra il 2012 e il 2022. Ma questa tipologia di spesa non rappresenta un indicatore affidabile per valutare le carenze della copertura pubblica, poiché circa il 40% riguarda prestazioni di basso valore e perché è limitata dalla capacità economica delle famiglie, che talvolta rinunciano a cure necessarie. Pertanto, l’ipotesi politica di ridurre la spesa out of pocket semplicemente aumentando quella intermediata da fondi sanitari e assicurazioni appare poco realistica, secondo Gimbe.

“L’aumento della spesa out-of-pocket non è solo il sintomo di un sottofinanziamento della sanità pubblica – afferma Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe – ma anche un indicatore delle crescenti difficoltà di accesso al Servizio sanitario nazionale. L’impossibilità di accedere a cure necessarie a causa delle interminabili liste di attesa determina un impatto economico sempre maggiore, specie per le fasce socio-economiche più fragili che spesso non riescono a sostenerlo, limitando le spese o rinunciando alle prestazioni”.
Non sorprende, quindi, che le regioni con maggiore spesa sanitaria privata siano quelle più ricche e con una sanità più efficiente, come Lombardia, Emilia-Romagna e Veneto, che registrano migliori performance nei Livelli essenziali di assistenza (Lea). Al contrario, le regioni del Mezzogiorno e quelle soggette a piani di rientro si collocano più in basso nella classifica. “Questo dato – spiega il presidente – conferma sia che il livello di reddito è una determinante fondamentale della spesa out-of pocket, sia che il valore della spesa delle famiglie, al netto del sommerso, non è un parametro affidabile per stimare le mancate tutele pubbliche, perché condizionato dalla capacità di spesa individuale”.

Secondo i dati Istat-Sha, le principali voci di spesa sanitaria delle famiglie italiane includono l’assistenza per cure e riabilitazione (44,6%), che comprende anche le prestazioni odontoiatriche, seguita dai prodotti farmaceutici e apparecchi terapeutici (36,9%) e dall’assistenza a lungo termine (10,9%).
“Tuttavia – precisa Cartabellotta – le stime effettuate nel report indicano che circa il 40% della spesa delle famiglie è a basso valore, ovvero non apporta reali benefici alla salute. Si tratta di prodotti e servizi il cui acquisto è indotto dal consumismo sanitario o da preferenze individuali quali ad esempio esami diagnostici e visite specialistiche inappropriati o terapie inefficaci o inappropriate”.

La spesa sanitaria delle famiglie è sempre più “arginata” da fenomeni che incidono negativamente sulla salute delle persone: limitazione delle spese sanitarie, che nel 2023 ha coinvolto il 15,7% delle famiglie, indisponibilità economica temporanea per far fronte alle spese mediche (5,1% delle famiglie nel 2023) e rinuncia alle cure. In particolare, nel 2023 circa 4,5 milioni di persone hanno dovuto rinunciare a visite o esami diagnostici, di cui 2,5 milioni per motivi economici, con un incremento di quasi 600.000 persone rispetto al 2022. Le differenze regionali sono marcate: 9 Regioni superano la media nazionale (7,6%), con la Sardegna (13,7%) e il Lazio (10,5%) oltre il 10%. Al contrario, 12 Regioni si collocano sotto la media, con la Provincia autonoma di Bolzano e il Friuli Venezia Giulia che registrano il valore più basso (5,1%).

La spesa intermediata attraverso fondi sanitari, polizze individuali e altre forme di finanziamento collettivo rimane limitata: nel 2023 ammonta a € 5,2 miliardi, ovvero il 3% della spesa sanitaria totale e l’11,4% di quella privata. “Il ruolo integrativo dei fondi sanitari rispetto alle prestazioni incluse nei LEA – commenta Cartabellotta – è limitato da una normativa frammentata e incompleta e la spesa intermediata compensa solo in parte il carico economico sulle famiglie». Dal report emergono due dati di particolare rilevanza. Il primo è che il 31,6% della spesa intermediata viene assorbito dai costi di gestione, mentre poco meno del 70% è destinato a servizi e prestazioni per gli iscritti. Il secondo evidenzia che tra il 2020 e il 2023 i fondi sanitari integrativi hanno progressivamente aumentato le risorse destinate all’erogazione di prestazioni, riducendo il margine rispetto alle quote incassate. «In altri termini – continua il Presidente – la crisi della sanità pubblica e, soprattutto, la sua incapacità di garantire prestazioni tempestive stanno spostando sempre più bisogni di salute sui fondi sanitari, mettendo a rischio la loro stessa sostenibilità”.

“La sanità integrativa – aggiunge Russo – sostiene la salute dei lavoratori e delle loro famiglie, si alimenta grazie alle scelte delle parti sociali in sede di Ccnl e rappresenta una forma avanzata di welfare sussidiario a supporto di quello pubblico. Tuttavia, può svilupparsi solo se realmente integrativa rispetto ad un Ssn in buona salute per intermediare la quota di spesa ad elevato valore delle famiglie, grazie alle auspicate riforme che il settore attende da anni”.

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In questa prospettiva, dati e analisi del report Gimbe offrono una fotografia chiara delle dinamiche della spesa out-of-pocket e individuano gli ambiti di intervento prioritari per il legislatore, sia sul fronte della riforma della sanità integrativa che delle detrazioni per le spese sanitarie.

“Innanzitutto – spiega Cartabellotta – il dibattito sull’entità della spesa out-of-pocket da intermediare si basa su un quadro distorto. La spesa delle famiglie, infatti, è da un lato “arginata” dalle difficoltà economiche, che lasciano insoddisfatti reali bisogni di salute, dall’altro è “gonfiata” dalla spesa a basso valore, indotta da inappropriatezza, consumismo sanitario e capacità di spesa individuale. In secondo luogo – continua il presidente di Gimbe – le tre componenti della spesa sanitaria (pubblica, out-of-pocket e intermediata) non obbediscono alla legge dei vasi comunicanti. Le nostre stime dimostrano che poco più del 60% della spesa out-of-pocket è di valore elevato, mentre il restante quasi 40% è destinato a prestazioni di basso valore, la cui intermediazione non apporterebbe alcun beneficio in termini di salute. Di conseguenza, risulta totalmente infondata l’ipotesi di rilanciare il Ssn “mettendo a sistema” gli oltre 40 miliardi di spesa out-of-pocket attraverso la sanità integrativa”.

“Ridurre la spesa out-of-pocket – aggiunge Cartabellotta – richiede un approccio di sistema articolato in tre azioni. Innanzitutto, un progressivo e consistente rilancio del finanziamento pubblico, da destinare in primis alla valorizzazione del personale sanitario per rendere più attrattiva la carriera nel Ssn. In secondo luogo, una maggiore sensibilizzazione dei cittadini per contrastare gli eccessi di medicalizzazione e una formazione mirata dei medici per limitare le prescrizioni inappropriate. Infine, una rimodulazione del perimetro dei Lea, oggi insostenibili per il numero di prestazioni incluse rispetto alle risorse pubbliche disponibili, per restituire al secondo pilastro il ruolo primario d’integrazione rispetto alle prestazioni non incluse nei Lea, come l’odontoiatria e la long-term-care, alleggerendo così la spesa delle famiglie. Infine – conclude Cartabellotta – considerato che la richiesta di rimborsi da parte dei fondi sanitari cresce proporzionalmente all’incapacità del Ssn di garantire prestazioni in tempi adeguati, si rischia di compromettere la sostenibilità stessa della sanità integrativa, delineando uno scenario critico. Da un lato l’aumento della spesa out-of-pocket e delle polizze assicurative individuali per chi può permettersele; dall’altro, la crescita dei fenomeni di riduzione delle spese per la salute e di rinuncia alle cure, con peggioramento degli esiti di salute. In definitiva, il secondo pilastro, previa adeguata riforma, può essere sostenibile solo se integrato in un sistema pubblico efficace. Altrimenti rischia di crollare insieme al Ssn, spianando definitivamente la strada alla vera privatizzazione della sanità, che alimenta iniquità e diseguaglianze e tradisce per sempre l’articolo 32 della Costituzione e i princìpi fondanti del Ssn”.





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