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Gentili lettori,

con l’appellativo del titolo viene comunemente identificata l’Inghilterra dei giorni nostri, ma l’origine del nome è uno dei più controversi e difficili da interpretare.

Un po’ di etimologia..

Esso fu usato fin dal VI secolo avanti Cristo e probabilmente ha radici celtiche, ma aveva un incerto significato:

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  • poteva derivare dalla radice –alb che significava “montagna” e in tal caso sarebbe anche alla base del nome moderno delle nostre Alpi;
  • oppure traeva origine dal Latino Albus, cioè bianco, riferendosi al colore dominante che ad uno straniero sarebbe apparso per primo, quello delle scogliere di Dover.

Si potrebbe anche pensare che i due concetti etimologici si fondessero nell’immagine di una montagna ammantata di bianca neve sulla cima.

Poi nell’antico Gaelico il termine fu utilizzato per indicare la Scozia, prima che si riferisse all’intera isola Britannica e venisse richiamata in seguito dagli scrittori celto-latini e da poeti come William Blake.

Anche la ragione per la quale il Regno Unito si chiamasse Britannia è controversa: la più probabile è che derivi dalla radice –phret poi migrata nel Latino fretum, cioè “stretto”, con riferimento al Canale della Manica. I Bretoni, che popolavano la sponda opposta nell’odierna Francia (Bretagna), condividevano la stessa radice nell’appellativo.

E un po’ di mitologia..

Ma non c’è storia o leggenda dell’antichità che non si mescoli con un qualche mito: Albione era uno dei Giganti figli del dio del mare Poseidone, e secondo alcuni storici la fonte principale del nome sarebbe quella.

In uno dei suoi scritti il citato poeta Blake identificava con quel nome il re di Atlantide.

Il sovrano riuscì a salvarsi dalla sua distruzione arrivando in Inghilterra insieme all’unico altro sopravvissuto che avrebbe dato origine ai Druidi.

Più recentemente…

Gli abitanti dell’isola britannica vennero spesso definiti “Figli di Albione”, come nel famoso romanzo di Anton Cechov della fine dell’800.  Quando li si definisce Inglesi si fa riferimento a uno dei popoli che si successe nel dominio dell’isola, cioè gli Angli. Essi precedettero l’arrivo dei Sassoni, e questi due nomi daranno poi luogo ad un ulteriore aggettivo che li fonderà in un unico termine, ad indicare la comune radice storica, culturale e anche linguistica che travalicherà l’Atlantico per arrivare ai confini del mondo e comprendere le attuali nazioni unite dallo stesso idioma.

Se poi pensiamo alla recente decisione di uscire dall’Unione Europea, la “Brexit” protagonista di tanti titoli di giornali, non ci meraviglia che una delle possibili origini del termine “britannico” possa risiedere nell’ antico sostantivo celtico “brit”, che significava… “luogo separato”! Insomma, essere “isola” non è solo un fatto geografico, a quanto pare…

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E in Finanza?

Quando si analizza l’andamento dei mercati si confrontano spesso gli andamenti delle diverse economie e delle rispettive valute: ebbene,

ogni operatore professionale con qualche sfumatura di grigio tra i capelli sa bene che spesso il Regno Unito tende ad anticipare di alcuni mesi le tendenze che poi si manifesteranno anche in riferimento ad altri Paesi.

Questo è avvenuto spesso in relazione agli indici azionari ed obbligazionari. Non è un caso che il rapporto di cambio più direttamente correlato con l’andamento dei mercati di rischio è quello tra Sterlina Inglese e Dollaro Usa.

Gli addetti ai lavori chiamano “Cable” perché i primi ordini tra Londra e New York venivano trasmessi attraverso il cavo sottomarino che consentì le comunicazioni veloci tra le opposte sponde dell’Atlantico.

L’inflazione: sviluppi attuali

Prendiamo ad esempio i numeri che sintetizzano l’andamento dei prezzi al consumo: a livello globale si stanno riducendo dopo la “sbornia” post-pandemia che costrinse le banche centrali ad alzare i tassi di interesse per contrastarla, ma gli ultimi dati ci dicono che quel rallentamento ha trovato una pausa, anzi un leggero recupero negli ultimi mesi, e in particolare in Inghilterra.

Il dato locale di gennaio 2025 parla di un’inflazione passata dal 2,5% di dicembre al 3% su base annua, e non è un incremento da poco. Vediamo allora di indagare più in dettaglio e di capire se quel fenomeno avrà anche stavolta il carattere anticipatore verso le altre economie.

I possibili aspetti comuni

Quando si parla di prezzi al consumo, ci si riferisce a due categorie di prodotti:

  • i beni materiali (materie prime, alimentari, prodotti industriali),
  • i servizi (in campo finanziario, assicurativo, distribuzione di acqua ed energia, comunicazioni etc.).

Notoriamente nel periodo in cui l’inflazione crebbe rapidamente dopo la fine della Pandemia fu il primo comparto a contribuire maggiormente, a causa delle difficoltà di trasporto e reperimento delle materie prime, la “supply shortage” degli addetti ai lavori. In seguito la dinamica rallentò e furono i Servizi a prevalere quale fattore principale dell’aumento dei prezzi.

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Come qualsiasi persona che abbia, per esempio, assicurato in ognuno degli ultimi anni la sua auto sa bene.

E poiché i PIL di tutti i Paesi più progrediti dipendono principalmente dai consumi, i prezzi dei generi abitualmente acquistati dai privati cittadini, i cosiddetti “households”, sono un fondamentale parametro nell’esame dell’attualità e nelle previsioni future.  Eccoci allora ai dati in forma grafica dei recenti andamenti nel Regno Unito:

La fonte è il locale Ufficio Nazionale di Statistica. L’andamento dei prezzi in generale sta risalendo dai minimi, trainato principalmente dalla spesa per consumi dei privati, che in Inghilterra viene letto con diversi indici a seconda della loro composizione. E all’interno della spesa privata, la linea dei “servizi” che è rimasta elevata ha fornito il maggior contributo alla recente evoluzione:

Mentre i beni materiali, dopo l’impennata post-pandemia e il repentino calo successivo, iniziano ad essere nuovamente un fattore di aumento dei prezzi, e in questo caso tra le principali cause vi è l’andamento dei prodotti energetici (in gennaio, tra l’altro, forte aumento delle tariffe aeree UK).

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E come è intuitivo, la maggiore o minore dipendenza dai costi energetici ha grande influenza sui costi della produzione di beni e quindi sulla dinamica inflattiva: come nella successiva figura tratta dall’Economic Outlook del Fondo Monetario Internazionale:

La dipendenza dai costi energetici è fondamentale nell’analisi attuale e previsionale di tutti gli aspetti macroeconomici legati all’inflazione.

Prossimamente…

Quello che sarà interessante è capire se ancora una volta i dati del Regno Unito saranno utili anticipatori delle tendenze più diffuse ed importanti, per aiutarci nel redigere previsioni accurate degli scenari futuri. E se consideriamo che come dipendenza dalle fonti energetiche fossili l’Europa si trova in una situazione più delicata del Regno Unito (e degli USA), come dimostrato dall’impatto della crisi Russo-Ucraina sulla crescita economica continentale europea, segnatamente della Germania, se l’inflazione nell’area della divisa comune è finora rimasta prossima ai valori minimi raggiunti alla fine del 2024 è stato per il concorso di una fase economica debole.

Passiamo ora alla consueta analisi settimanale.

L’ultima seduta della settimana è stata quella che ha caratterizzato di più l’andamento dallo scorso venerdì: in gergo tecnico, una seduta di “sell-off”, cioè “vendi e basta” senza stare tanto a ragionare.

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Motivazioni?

Due i fattori che hanno causato il fenomeno:

  • i dubbi sull’impatto che le nuove misure tariffarie possono avere sul comportamento dei consumatori
  • i dati macro usciti venerdì.

Dal “combinato disposto” degli indici PMI e di quelli della fiducia dei consumatori rilevato dall’Università del Michigan, sembrano preludere ad un rallentamento economico negli USA, peraltro già ipotizzabile dopo i recenti numeri delle vendite al dettaglio.

Ora, a parte le considerazione di carattere squisitamente tecnico su cui torniamo tra un attimo, l’accento sui consumi si è ampliato dopo le previsioni economiche del gigante della distribuzione WalMart, che prevedono nei prossimi mesi un calo dei consumi, e la loro lettura va quindi nella stessa direzione dei fattori precedenti. A questo punto diventano fondamentali l’indice di febbraio della fiducia dei consumatori su scala nazionale che verrà diffuso il prossimo martedì e il dato del PIL nel quarto trimestre 2024 due giorni più tardi: e poiché il secondo dato non “comprendeva” ancora gli ultimi sviluppi sulle politiche doganali, il confronto tra i due fornirà una più precisa chiave di lettura.

Graficamente?

Se consideriamo però l’andamento dei titoli azionari più gettonati dell’ultimo biennio, quelli per intenderci che rendicontiamo settimanalmente in dettaglio, e li confrontiamo con l’indice Nasdaq, la situazione è la seguente (base 100= Aprile 2024):

Dopo aver “tirato la volata” dell’indice nei mesi precedenti fino ai recenti massimi, l’ideale “paniere” delle magnifiche 7 ha prima rallentato il progresso per poi restare indietro rispetto all’indice stesso; possiamo anche notare che l’andamento “orizzontale” evidenziato dal cerchio colorato era partito già nello scorso dicembre, e nel corso di gennaio aveva perduto ulteriori spazi dopo l’avvento della nuova tecnologia sulla Intelligenza Artificiale.

In sintesi…

Tutto questo per dire che il sistema di aspettative espresso dai mercati più volatili e rischiosi aveva cominciato ad interrogarsi già da qualche settimana, e l’acuirsi dei fattori sopra evidenziati ha dato un’accelerata al processo.

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A livello settoriale…

L’analisi per settori di attività in USA conferma il momento di incertezza: oltre al -2,46% del settore Tecnologico risalta il -3,79% dei Beni discrezionali (quelli cioè acquistati di più quando l’economia si espande) che si affianca al -5,13% del comparto Retail, quest’ultimo ovviamente influenzato dai numeri della società principale sopra citata. Anche l’indice Russell 2000 che comprende le società di piccole dimensioni, in genere più volatile degli altri, ha segnato un -3,34% rispetto al venerdì precedente. Per converso, i pochi segni positivi sono stati appannaggio dei Beni di base (quelli per intenderci dei quali non si può fare a meno per cibarsi, vestirsi etc.) e dell’Healthcare, due settori tipicamente anticiclici, “rifugio” delle fasi negative dei listini azionari.

Aggiorniamo anche la consueta tabella:

 

 A livello geografico…

A differenza di quelli statunitensi gli indici europei chiudono la settimana con il segno più, ma dobbiamo considerare che l’effetto dei fattori ribassisti si è manifestato nel pomeriggio di venerdì e quando le borse continentali hanno chiuso, poi il trend è proseguito su quelle americane per la differenza di fuso orario. E stavolta i flussi confluiti verso i mercati azionari cinesi hanno fatto la differenza, con l’indice Hang Seng che invece ha segnato un buon progresso, +3,79%.

Riassumendo per quanto riguarda l’azionario

Sappiamo bene che il mercato delle Stocks non ha mai avuto un andamento regolare e prevedibile con certezza, le oscillazioni fanno parte della sua “natura” e non meravigliano più di tanto, anche quando l’indice della volatilità segna +25% come nella scorsa ottava: se stavolta le variazioni sono state particolarmente ampie è perché la combinazione di un’economia in rallentamento e di una inflazione che stenta a rallentare ancora, anzi risale come nel caso del Regno Unito descritto nel focus iniziale, è lo scenario meno favorevole in assoluto per i mercati di rischio. Quindi ora diventano particolarmente importanti i prossimi dati macroeconomici Usa e le decisioni sui dazi doganali, e li giudizio verterà sulla possibilità che questi fattori depongano a favore dello scenario più negativo sopra descritto, o piuttosto possano stemperare il clima negativo dell’ultima seduta.

Obbligazionario

Il calo del rendimento dei titoli decennali di riferimento, ora sotto quel 4,5% assunto un po’ come “diga” tra fasi positive e negative, avrebbe potuto essere ancora più ampio se le attese sull’inflazione fossero risultate più ottimistiche.

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Il mercato sconta ora una maggiore probabilità che la Federal Reserve possa procedere a due tagli dei tassi entro fine anno, e qualcuno si azzarda a prevederne anche un terzo, ipotesi che solo qualche settimana fa appariva come remota.

Valutario

Più del Dollaro Usa che ha chiuso la settimana pressochè invariato, la migliore sintesi è offerta dall’apprezzamento dello Yen giapponese, che non rinuncia al suo ruolo di “bene rifugio” nei momenti più incerti.

La discesa sotto quota 150 per Usd ha anche una valenza psicologica, oltre a riflettere una politica monetaria divergente della Bank of Japan rispetto agli altri istituti di emissione. Restando ad Est, anche la divisa Cinese ha espresso un andamento stabile, e se consideriamo che il Dollaro Australiano (divisa di un Paese con stretti rapporti commerciali con Pechino) è stato tra le migliori valute della settimana, abbiamo una ulteriore conferma delle aspettative positive sull’efficacia delle manovre di stimolo economico che il Dragone rosso sta mettendo in campo, anche se nell’ultima riunione la PBOC ha deciso di lasciare i tassi di interesse invariati.

Le Commodities

Piuttosto variegata l’ottava appena conclusa, e la lettura più appropriata distingue tra le materie prime “cicliche”, cioè più domandate in uno scenario di economie in crescita , e quelle più difensive, premiate quando le aspettative sono opposte.

Ebbene, si giustificano allora per quanto scritto finora sia il -0,69% del Petrolio WTI che il -2,31% del Rame. Tra i metalli industriali “tengono” quelli di origine ferrosa. Così come, di segno opposto, risalta il +1,77% dell’Oro che brilla nei suoi nuovi massimi storici a ridosso di quota 3.000 Usd/oncia.

Più diversificata la performance delle Agricole, che svaria dal -3,63% del Mais al +4,46% dello Zucchero. Il Caffè a  -1,67% del Caffè sta regredendo dai top della settimana precedente. E dopo aver parlato di tanta volatilità sui principali mercati, chiudiamo il capitolo commodities con il +14,48% del Gas Naturale. Non rinuncia agli ampi sbalzi cui gli operatori sono avvezzi. Nel caso specifico hanno contribuito la diminuzione delle scorte Usa (ai livelli minimi da due anni a questa parte), la previsione di un aumento della domanda per riscaldamento dovuta alle temperature più rigide e anche, last but not least, la rimozione da parte di Trump del limite all’export di Gas che il suo predecessore aveva stabilito. Ancora lo “zampino” del nuovo inquilino della Casa Bianca, e ne vedremo ancora, questo è poco ma sicuro.

Il nostro consueto indicatore riflette il brusco cambio di “clima” sui mercati, con una inclinazione nettamente negativa:



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