Da tre anni abbiamo scelto di “abitare questo conflitto” con tanti giovani che credono nella nonviolenza

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Operazione Colomba, Kherson. “Da tre anni abbiamo scelto di ‘abitare questo conflitto’ con tanti giovani che, come noi, credono in un approccio nonviolento. Non sappiamo ancora come riusciremo a mantenere la promessa, ma non possiamo abbandonare chi è rimasto qui. Condividiamo con loro ogni giorno rischi e difficoltà. Dobbiamo però fare di più! La nonviolenza è un percorso che cura le ferite, ma ha bisogno di essere sostenuta da gesti concreti. Non possiamo limitarci ad assistere inerti, e né lasciare giocare i potenti a fare politica con la vita e i beni altrui. Amare significa non abbandonare. Lavorare per la pace vuol dire mettersi in gioco per un futuro migliore, garantito a tutti e non solo a pochi”.

Operazione Colomba a Kherson (foto Cofano)

Kherson, da tre anni sotto i fuoco russo (foto Cofano)

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Kherson, Ucraina. Erano passati solo tre giorni dallo scoppio della guerra quando, con Alberto, siamo entrati in Ucraina. Ancora non sapevamo che ci avrebbe ricordato così intensamente la decisione di “abitare il conflitto” che prendemmo più di trent’anni fa nei Balcani, insieme ai giovani dell’Operazione Colomba (corpo civile di pace della Comunità Papa Giovanni XXIII).

Oggi, a distanza di tre anni dal nostro primo arrivo, ci siamo ritrovati insieme nuovamente a Kherson, purtroppo ancora sul fronte. Mercoledì notte un missile balistico ha colpito un palazzo di dieci piani nel centro della città, squarciandone l’interno e causando la morte di altre sette persone. Il bilancio più doloroso è, forse, l’aumento del numero di orfani: due piccoli, ignari del loro tragico destino, hanno perso entrambi i genitori. Maksym, un amico ucraino che era con noi durante le operazioni di soccorso fra le macerie, si è girato sconsolato: “Dicono fosse una base segreta della NATO, ecco perché l’hanno bombardata!”. Ormai il sarcasmo è l’unica reazione all’assurdità della propaganda.

Da tre anni abbiamo scelto di “abitare questo conflitto” con tanti giovani che, come noi, credono in un approccio nonviolento.

Ogni giorno, da oltre un anno, operiamo presso la Dom Kultury (Casa della Cultura) di Kherson, un edificio storico che più volte è stato bombardato, ma che, grazie all’aiuto di numerosi volontari, è stato in parte ricostruito dopo ogni attacco. Al suo interno trovano assistenza centinaia di persone, per lo più anziani che hanno deciso di non abbandonare Kherson, nonostante sia una delle città più colpite sul fronte. Prima della guerra contava circa 400.000 abitanti; oggi, si stima ne siano rimaste meno di 30.000. In questo centro, quando la generosità dei donatori lo permette, si distribuiscono sacchetti di viveri e, per una cinquantina di anziani, si riesce a offrire un pasto caldo a pranzo: un momento prezioso di condivisione e socialità in una città ormai deserta, priva di servizi, bar o ristoranti.

Qualche giorno fa, in quella sala, è apparso un bambino di circa un anno.

Operazione Colomba a Kherson (foto Cofano)

Alberto è rimasto colpito: «In due anni di permanenza a Kherson non avevo mai visto un neonato, e raramente bambini più grandi». Quel piccolo, avvolto in una tuta imbottita, non era con la madre, come sarebbe stato naturale, ma con la nonna. Ci siamo chiesti come mai fosse rimasto lì, in una città così esposta, anziché essere portato in un luogo più sicuro. Ma ciò che ha rappresentato un vero pugno nello stomaco è stata la sua espressione: circondato da adulti infreddoliti (fuori toccano i -10 gradi e spesso manca l’elettricità). Ma questo indifeso piccolo uomo non ha mai emesso un singolo lamento né un pianto – e purtroppo nemmeno un sorriso. A quell’età ha già dovuto imparare una cosa terribile: tendere la manina per un piatto di minestra calda.

Il volto crudele di questa guerra, la sofferenza di un popolo martoriato, è racchiuso tutto nello sguardo di questo piccolo essere affamato e silenzioso.

Davanti ai responsabili di questo umile, fatiscente centro di aiuto, abbiamo preso un impegno: faremo il possibile per far arrivare camion di aiuti alimentari dall’Italia. L’ultima distribuzione di sacchetti contenenti conserve e farina risale a oltre due mesi fa. La solidarietà, purtroppo, a volte ha il fiato corto, e la generosità iniziale tende a spegnersi con il passare del tempo. Ma quell’immagine di un “bambino-Gesù” in mezzo alle rovine ci ricorda che non possiamo girarci dall’altra parte.

Non sappiamo ancora come riusciremo a mantenere la promessa, ma non possiamo abbandonare chi è rimasto qui. Condividiamo con loro, ogni giorno, rischi e difficoltà. Dobbiamo però fare di più!

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La nonviolenza è un percorso che cura le ferite, ma ha bisogno di essere sostenuta da gesti concreti.

Non possiamo limitarci ad assistere inerti né lasciare giocare i potenti a fare politica con la vita e i beni altrui. Amare significa non abbandonare. Lavorare per la pace vuol dire mettersi in gioco per un futuro migliore, garantito a tutti e non solo a pochi. Lascio Kerson fra le macerie e il silenzio, e lo sguardo spento di quel  bambino che chiede appena di sopravvivere e sono convinto che si possa continuare a credere in un’umanità capace di cura e solidarietà.

*responsabile Ufficio Progetti Internazionali, Comunità Papa Giovanni XXIII





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