Il tema è attuale, tanto che l’assemblea nazionale francese ha appena approvato una norma per tassare i patrimoni dei super ricchi, ribattezzata “tassa Zucman”. Però l’economista francese è ancora più radicale e dice che servirebbe una norma “anti-esilio”, affinché i ricchissimi continuino a pagare le imposte nel paese di origine, dove si è usufruito di formazione e servizi, alla base dell’arricchimento
La tassazione dei super ricchi è una fondamentale sfida dei nostri sistemi tributari e delle nostre democrazie. Perché? Perché, parafrasando Joseph Stiglitz e Jayati Ghosh, i miliardari oggi pagano in media meno dei lavoratori medi in termini relativi, e perché l’enorme accumulazione di ricchezza degli ultimi decenni indebolisce sempre di più il tessuto sociale, il funzionamento della democrazia e anche la crescita economica.
L’imposta francese
Proprio nei giorni scorsi, l’Assemblea nazionale francese ha approvato a maggioranza schiacciante una proposta di legge per istituire una imposta minima del due per cento sui patrimoni dei quattromila francesi con ricchezze complessive superiori ai 100 milioni di euro. La nuova patrimoniale potrebbe non essere confermata nel voto al Senato, ma si stima possa generare un gettito compreso fra i 15 e i 25 miliardi.
La patrimoniale è spesso considerata non di facile implementazione, oltre a essere largamente osteggiata dalla classe dirigente economica e politica. Gli ultraricchi si possono tassare in molti modi, ma nessuno di questi può eludere il semplice fatto che i ricchi non hanno solamente redditi e patrimoni più elevati, ma anche una diversa composizione di tali redditi e patrimoni.
A differenza di tutti noi, i loro redditi principali originano in maniera preponderante dagli investimenti e non dal lavoro. Quanto ai patrimoni, le loro ricchezze non sono composte da abitazioni e conti correnti, ma da titoli finanziari e da quote partecipative in attività imprenditoriali.
La mobilità fiscale
Tra tutte le obiezioni alle forme di tassazione patrimoniale nel pubblico dibattito, oltre al rischio di “evasione ed elusione fiscale”, a quello di “doppia tassazione” e al “problema della valutazione dei patrimoni”, vi è il problema della “mobilità fiscale”. Si narra che l’aumento delle imposte patrimoniali spingerebbe i ricchi a cambiare residenza fiscale ed emigrare.
Anche se studi su Svezia e Danimarca mostrano che l’impatto economico complessivo di tale problema di mobilità è relativamente ridotto, questa stessa argomentazione è stata sollevata dalla segretaria del Pd Elly Schlein nei giorni scorsi, suggerendo che un coordinamento minimo europeo sarebbe auspicabile per poter agire su questo fronte.
Ma vediamo perché non è del tutto vero che un paese, da solo, non possa fare nulla. Innanzitutto, diversi paesi, anche piccoli e prosperi, come la Svizzera, la Norvegia, e la Spagna, hanno già istituito, anche da diversi decenni e senza esodi di massa, imposte sul patrimonio complessivo. In secondo luogo, esistono soluzioni già implementate per limitare l’esilio fiscale. Alcuni paesi, come gli Stati Uniti, tassano i propri cittadini ovunque essi vivano, mentre altri, come la Francia, hanno una sorta di “tassa di uscita”.
Lo scudo anti esodo
Altre idee potrebbero presto farsi strada, come quella recentemente discussa sulla piattaforma X dall’economista francese Gabriel Zucman, l’idea di uno “scudo anti esilio”. Zucman fa l’esempio di una persona che ha vissuto in Francia per molto tempo, che è diventata immensamente ricca e poi preferisce andarsene in un paradiso fiscale.
La Francia, egli dice, «dovrebbe – e potrebbe facilmente – continuare a tassare quella persona anche dopo la sua partenza, almeno per un certo numero di anni. Dovrebbe, perché la ricchezza è sempre una creazione collettiva. I nostri miliardari hanno beneficiato dell’istruzione, della sanità e delle infrastrutture del nostro Paese, per non parlare della conoscenza accumulata in migliaia di anni dall’intera umanità».
Questa tipologia di proposte di politiche pubbliche, come lo scudo anti esilio, è di grande interesse a mio avviso per tre motivi principali. Primo: permetterebbe di non partire dal presupposto che l’esilio fiscale dei ricchi sia una risposta ineluttabile alla creazione di nuove forme di tassazione, una sorta di legge di natura a cui non si può porre rimedio. Secondo: ha il pregio di concentrare l’attenzione su ciò che si può implementare anche a livello nazionale, indipendentemente dalle azioni transnazionali. Tali azioni restano fondamentali, ma il clima politico inaugurato dalla rielezione di Trump non ne garantirà una vita facile.
Infine, sono proposte che partono da un presupposto di ribaltamento del comun sentire o del senso comune. Per poter accettare proposte simili bisogna anche essere disposti a mettere in discussione la retorica patrimonialista del “Mi sono fatto da solo”. La stessa “cultura patrimonialista” che riconosce il merito di possedere o controllare il capitale a chi già lo possiede o controlla, e che proclama dunque il merito dell’accumulazione di ingenti ricchezze trascurandone la verifica dell’“utilità sociale”.
C’è infatti da chiedersi se la ricchezza sia stata accumulata a danno di altri, o è anche merito di altri e frutto di investimenti o commesse pubbliche.
© Riproduzione riservata
***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****
Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link