Libano Padre Hani e il piatto caldo della speranza

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da Beirut
Salvatore Cernuzio

L’esplosione, la distruzione e, via, un pentolone preso da casa e portato di corsa per strada per cucinare lì per lì un piatto caldo a volontari, feriti, familiari, gente delle vie vicine al porto che aveva perso tutto. È iniziata così, nel 2020, da un istinto di solidarietà a poche ore da una delle più grandi tragedie che Beirut abbia mai conosciuto, la Cuisine de Mariam, l’attività del sacerdote maronita Hani Tawk e di sua moglie Dounia. Un progetto caritativo in Libano che consiste semplicemente nel cucinare ogni giorno per chi non ha più risorse ma tanta fame: poveri, sfollati, rifugiati, vittime di guerra.

I due, rispettivamente 50 e 45 anni, sposati da ventiquattro, genitori di quattro figli e già nonni («A breve arriverà un altro nipotino!»), prima distribuivano pasti per i marciapiedi della capitale del Libano: piatti francesi, piatti italiani (“Il ragù alla bolognese!”), soprattutto piatti libanesi, perché incontrano maggiormente il gusto della popolazione. Lo hanno fatto inizialmente per 25 giorni, poi «ci hanno cacciato e allora abbiamo trovato un magazzino semi-distrutto che abbiamo riallestito».

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Da qualche mese esiste pure una cucina mobile che gira per tutto il Paese.

Dal pentolone degli esordi si è arrivati a distribuire anche 25 mila piatti al mese, con una media di quasi 3 mila al giorno. Durante la guerra sono diventati anche 5 mila: «Lavoravamo 7 giorni su 7. Per 605 giorni non ci siamo mai fermati». Neanche sotto i droni e le bombe. Sì, perché la guerra per Hani e Mariam è stata una delle tante tragedie che, armati di mestoli e fornelli, hanno affrontato in questi cinque anni: l’esplosione del porto, l’acuirsi della crisi economica, la pandemia di Covid-19, il conflitto al sud del Paese. «Ma siamo sempre andati avanti», raccontano ai media vaticani.

Un guizzo appare dietro gli occhiali scuri di padre Hari quando ricorda le fasi iniziali del progetto. “Abitiamo a Byblos, a 40 km di distanza dalla capitale. Saputo della esplosione abbiamo preso una grande pentola e abbiamo iniziato a cucinare per i volontari e le persone colpite. In un primo momento era un progetto molto rudimentale, dopo si è sviluppato sempre di più di giorno in giorno».

Dopo un mese hanno affittato il capannone a cento metri dal porto, allestito ora con cucine professionali e un lunghissimo tavolo dove i due espongono sui social network le vaschette in alluminio ricolme di pietanze.

All’inizio a cucinare era solo Dounia, poi si è rimboccato le mani pure Hani. Lo ha dovuto fare per forza quando la moglie si è ritirata durante il confinamento a causa del Covid-19 per badare ai figli e alla casa. Finita la pandemia, sono tornati tutti in campo, inclusi i ragazzi: tre maschi e una femmina di 26, 20, 16 e 13 anni. Studenti e lavoratori, hanno aiutato i genitori da subito: «Sono sempre stati con noi. Prima i preparativi si facevano in casa», racconta la coppia. «Cucinavamo fino a mezzanotte, portavamo tutto il giorno dopo in strada. I ragazzi erano commossi. Si sono sempre dati da fare e hanno messo dentro pure i loro risparmi». Ora, compatibilmente con impegni di uffici e università e soprattutto d’estate, continuano a dare una mano.

La Cuisine al momento conta sulla presenza di due chef professionisti che gestiscono la preparazione dei pasti giornalieri, oltre che sull’aiuto di numerosi volontari. E, come se non bastasse, Dounia ha iniziato a offrire pure supporto psicologico e psicosociale. «Abbiamo organizzato gruppi per bambini e per adulti», racconta. «In Libano la previdenza sociale non copre la terapia psicologica, ma c’è grande bisogno di guarire dai traumi e le persone qui sono molto traumatizzate. L’esplosione del porto, come anche tutti i problemi prima e dopo, hanno esercitato una forte pressione psicologica sulla popolazione. Ci sono sintomi che persistono, sindromi di stress post-traumatico e c’è anche violenza intrafamiliare. Molte persone non possono permettersi il lusso di andare da uno psicologo. Ho organizzato allora ambulatori gratuiti tre volte a settimana. La gente sa che siamo lì, prende appuntamento e viene».

Sotto un capannone ci si prende cura, insomma, di corpo, mente e anima. A sostenere la Cuisine de Mariam è stata inizialmente “L’Œuvre d’Orient”, poi diverse associazioni. Attualmente il più grande donatore è la Fondazione cma-cgm, che fa capo all’azienda francese di trasporti, la terza più grande del mondo. «Ma — raccontano i protagonisti di questa favola urbana — sono davvero tante le persone che, singolarmente, hanno da subito creduto in noi, nella nostra missione, e ci hanno aiutato. C’è molta beneficenza fatta da privati. È un miracolo, un vero miracolo».

Padre Hani e Dounia oltre al progetto del porto hanno avviato di recente l’altra iniziativa di una cucina mobile che gira per Beirut e altre città del Libano, inclusi i villaggi colpiti dalla guerra. «Siamo in grado di preparare circa mille pasti al giorno». E neanche a chiederglielo se, dopo tanto impegno, abbiano intenzione di fermarsi o rallentare. «In realtà il nostro desiderio è quello di girare il mondo, di incontrare le persone, i poveri, lì dove sono, nei loro bisogni». E allora, mabruk!, «congratulazioni!». (salvatore cernuzio)

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