La storia raccontata nella serie Netflix. La consegna da parte del Messico legata alla disputa sui dazi. Per l’antidroga americana era la preda più ambita
La lunga caccia è finita. Anche l’anima di Enrique “Kiki” Camarena può smettere di vagare in preda ai tormenti. La Dea ha finalmente in mano il suo assassino, il boss del Cartello di Guadalajara autore di uno dei più feroci e mai dimenticati omicidi tra le fila della narcotici statunitense. Rafael Caro Quintero, oggi settantaduenne, è stato estradato assieme ad altri 28 narcos dal Messico negli Usa. Un gesto da parte della presidente Claudia Sheinbaum per avviare una trattativa con Donald Trump in vista dei dazi del 25 per cento che il capo della Casa Bianca ha deciso di applicare dal 3 marzo nei confronti di tutti i prodotti esportati dal Messico verso il paese confinante. Un regalo, l’offerta su un piatto d’argento che punta a smussare l’offensiva predatoria di Donald Trump appena dimostrata anche nel vertice burrascoso con Zelensky concluso tra offese e minacce. Il Messico ha dovuto confermare il suo impegno a frenare il potere dei Cartelli nei fatti padroni del campo e rispondere così alle richieste del tycoon che accusa il paese vicino di essere responsabile dell’epidemia di morti per overdose tra i suoi cittadini a causa del fentanyl che ha invaso strade e piazze.
Il boss della droga è atterrato a New York nel tardo pomeriggio di giovedì scorso. Indossava una uniforme carceraria beje. Ad attenderlo c’era una mezza dozzina di agenti della Dea, alcuni dei quali hanno immortalato con i loro cellulari una scena che attendevano dal 9 febbraio 1985. Quel giorno segna la morte di Camarena, un giovane agente di origini messicane della narcotici rapito per strada, prigioniero in una delle case sicure del Cartello di Guadalajara, torturato per giorni, tenuto in vita da un medico che gli somministrava dosi di adrenalina e antidolorifici e infine lasciato morire tra atroci sofferenze. Una bruttissima storia che sconvolse la Dea e attirò le critiche degli altri boss dei Cartelli convinti, come nei fatti avvenne, che questo omicidio eccellente avrebbe rotto un equilibrio delle forze in campo e compromesso i lucrosi affari del narcotraffico.
Rafael Caro Quintero agì da solo ma con il tacito consenso degli altri capi convinti che “Kiki” sapesse più di quanto sosteneva di sapere nei lunghi interrogatori. Non ci sono prove ma appare verosimile che siano arrivate anche forti pressioni dei politici coinvolti nel grande business della droga a insistere nelle torture per capire fino a dove si era spinto quell’agente troppo curioso e avere la garanzia che i loro nomi non erano noti agli americani. Per il “boss dei boss” come veniva chiamato Quintero c’era un motivo diverso dietro quel sequestro: la vendetta. Legato a Miguel Angel Felix Gallardo, e poliziotto e fondatore del Cartello di Guadalajara, era convinto che la marijuana fosse ancora un business vincente. Erano gli anni 80 del secolo scorso, gli anni del boom in Borsa, delle “Mille luci di New York”. Gli anni della cocaina che si era imposta nelle piazze grazie ai colombiani di Pablo Escobar che avevano subito recepito la domanda del mercato statunitense.
Felix cercò di convincere il suo sodale, ma Rafael Quintero insisteva con l’erba. Acquistò per un pugno di dollari un vastissimo terreno nel deserto dello Stato di Jalisco, di cui Gadalajara è la capitale, deciso a coltivarlo con la marijuana. Una marijuana speciale: la sinsemilla. La prima sprovvista di semi, più facile da smerciare e di qualità superiore. Per mesi si mise a forare il terreno alla ricerca di qualche falda acquifera, fondamentale per irrigare le future piantagioni. Un lavoro lungo e frustrante. Ma premiato dalla sua costanza. Dopo decine di scavi infruttuosi, grazie ai candelotti di dinamite lanciati nell’ennesimo pozzo a secco, ecco spuntare l’acqua che a fiotti iniziò a dissetare la più grande e mai vista piantagione di marijuana al mondo. Fu proprio “Kiki” Camarena a scoprirla. Grazie a delle foto scattate da un piccolo aereo della narcotici messo sulle coordinate giuste da alcune intercettazioni telefoniche, la distesa di piante di erba in mezzo al deserto finì tra le prove raccolte dalla Dea. Furono mostrate al governo messicano che non potè evitare di intervenire. La Marina messicana fece irruzione in quella proprietà e tutta la “sinsemilla” di Quintero venne distrutta dalle fiamme. Un vero smacco per un umile contadino diventato re grazie al suo ingegno che gli aveva fatto conquistare un mercato senza rivali. Era l’inizio del declino. Ma la decisione di vendicarsi con il sequestro e l’uccisione di chi aveva distrutto il suo sogno decretò anche la fine di Rafael Quintero. L’intera storia è raccontata, con l’efficacia di sempre, in uno dei capitoli della serie Narcos su Netflix: quello sul Messico.
I rapporti del boss con la politica che lo proteggeva gli consentirono di evitare lunghi periodi di detenzione, nonostante gli arresti continui che la giustizia messicana era costretta a ordinare per le pressioni Usa. Nel 2002 venne avviato un processo di estradizione richiesta dal Dipartimento della Giustizia che accusava Quintero di tre casi di narcotraffico. Ma era stato l’omicidio di “Kiki” Camarena ad aver definitivamente compromesso l’ascesa del boss. La Dea, e gli Usa, non dimenticavano. Volevano a tutti i costi l’assassino del loro agente. Così è stato. Oltre a Caro Quintero, il Messico ha consegnato gli ex leader dei cartelli Los Zetas, militari antidroga passati tra le fila dei narcos, e uno dei principali artefici della distribuzione del fentanyl nel cartello di Sinaloa nonché luogotenente dei Los Chapitos, i figli del Chapo che sta scontando l’ergastolo in un carcere di massima sicurezza a New York.
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