Moby Prince: davanti allo sconcerto dei familiari delle vittime la Procura percorra l’ultimo miglio

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“Non è sempre facile dire la verità, specialmente quando si deve essere brevi” scrisse Sigmund Freud, inventore della psicanalisi. Un aforisma utile per commentare l’ultima sul caso Moby Prince. Il 25 febbraio infatti la terza Commissione parlamentare d’inchiesta sulla vicenda ha ascoltato gli attuali responsabili delle due Procure che da 7 anni indagano, nuovamente, sulla morte di 140 persone la notte tra il 10 e l’11 aprile 1991 davanti al porto di Livorno. Via diretta web noi e i familiari delle vittime abbiamo potuto ascoltare solo le parole di uno dei due magistrati, il Procuratore della Repubblica di Livorno Maurizio Agnello, poiché il suo omologo di Firenze, in quota DDA, ha secretato il suo intervento.

Dopo l’esposizione di Maurizio Agnello, le associazioni familiari delle vittime della strage hanno diffuso un comunicato stampa molto duro di condanna delle parole del magistrato e alcuni commentatori sono andati a ruota. Per capire il motivo di questo bailamme bisogna conoscere un po’ di storia e analizzare metodo e merito della comunicazione della magistratura.

Nel metodo quelle udite erano infatti le prime parole della magistratura in 7 anni su un’indagine per strage condotta finora nel più stretto riserbo non dal magistrato in questione, Maurizio Agnello, arrivato alla Procura di Livorno alla fine del 2024, ma dal suo predecessore Ettore Squillace Greco e reggente successivo. Squillace Greco ha infatti lasciato Livorno nell’ottobre 2023, per approdare alla Corte d’appello di Firenze, senza dire una parola sul caso e lasciandolo nelle mani della sostituta Sabrina Carmazzi e del reggente Massimo Mannucci, magistrato che già indagò su Moby Prince tra il 2006 e il 2010 non spostando di una virgola la ricostruzione sulla vicenda. Diciamo quindi che il silenzio di sette anni ha caricato le aspettative e le parole fornite oggi le hanno deluse.

Nel merito di quelle parole, servirebbe calma interpretativa. Perché Maurizio Agnello ha riferito alla commissione d’inchiesta spunti derivati dalla sintesi estrema di un lavoro fatto da altri e, a ben vedere, neanche direttamente dai magistrati citati. Perlopiù infatti Agnello pare aver riferito impressioni dedotte dalla lettura dell’informativa sul caso prodotta dal personale della Guardia di Finanza che ha materialmente letto gli atti (per Moby Prince oltre diecimila pagine di documenti), acquisito nuove testimonianze, scritto sintesi di tutto questo materiale e delle eventuali consulenze tecniche disposte, a beneficio della comprensione dei magistrati titolari dell’inchiesta, perché decidessero il da farsi. Un lavoro mastodontico, quindi, del quale è utile riconoscere lo sforzo.

Maurizio Agnello ha avuto coraggio a sintetizzare pubblicamente alla commissione d’inchiesta l’esito di un’indagine così complessa di cui nulla aveva predisposto. Ha adempiuto al suo ruolo di Procuratore della Repubblica di Livorno ben oltre le possibilità canoniche, anticipando spunti investigativi e possibili esiti. E in questa irrituale generosità informativa, in totale controtendenza col silenzio tombale perseguito sul caso dal suo predecessore Ettore Squillace Greco, Maurizio Agnello ha dato alcune notizie rilevanti. Caso vuole proprio quelle meno sottolineate dal bailamme.

Il Procuratore ha riconosciuto infatti molte delle conquiste di almeno 15 anni di ricostruzione storica dell’accaduto, passate negli ultimi dieci dal piano privato di pochi studiosi a fianco dei familiari delle vittime al piano pubblico delle tre Commissioni parlamentari d’inchiesta sul caso. Maurizio Agnello ha infatti riconosciuto la posizione dell’Agip Abruzzo in zona di divieto d’ancoraggio, ha rappresentato l’esistenza di responsabilità da parte di entrambe le compagnie armatoriali SNAM e Navarma – sintetizzata dal loro patto di non belligeranza ricordato come “accordo assicurativo” -, ha presentato la difficoltà di avere “risposte scientifiche” univoche sul tema della sopravvivenza a bordo e ha parlato infine in modo irreversibile delle carenze dell’autorità pubblica – Capitaneria di Porto e sopra Marina Militare – su soccorso e sicurezza, oltre che dell’ambiguità testimoniale sulla nebbia in rada quella notte. Il Procuratore di Livorno si è spinto addirittura oltre, dicendosi disposto ad iscrivere nel registro degli indagati i responsabili dell’accaduto, se identificati, anche se il reato ravvisato è prescritto, a beneficio di una verità certa e giustizia possibile.

Peccato quindi che la contemporaneità del “veloce, conflittuale e subito” abbia condensato la sua audizione nelle uniche note stonate relative alla continuità con la tesi dell’incidente banale e della nebbia. Sono certo che Maurizio Agnello, visti i suoi trascorsi a Trapani, con più tempo a disposizione per approfondire il caso possa arrivare a superare anche queste ultime due note stonate.

Ma l’aspetto decisivo di questa vicenda resta un altro: i tempi di sopravvivenza delle vittime. E su questo il Procuratore di Livorno ha sì superato il monolite della morte rapida di tutte le 140 vittime in massimo mezz’ora – dovuto alla perizia medico legale disposta dal PM nel 1991 e integrata nel 1994 che è difficile non ritenere un depistaggio – ma parrebbe essersi fermato alla “difficoltà” di una stima certa della vita a bordo del Moby Prince quella notte.

Maurizio Agnello può quindi compiere un atto di coraggio e onestà intellettuale. Può fare l’ultimo miglio di questa inchiesta, da protagonista, e accettare le evidenze già indicate dall’unica perizia medico legale terza prodotta dallo Stato sul caso: la perizia prodotta dalla Commissione d’inchiesta Moby Prince 2015-2018 che ha definito in modo inequivocabile per alcune vittime una sopravvivenza di diverse ore e per una, Antonio Rodi, la vita fino almeno alle 7 del mattino dell’11 aprile 1991. Se non si fidasse, Maurizio Agnello potrebbe disporre una perizia medico legale a compendio. Qualsiasi medico legale libero da conflitti d’interesse o altre distrazioni riconoscerebbe infatti che Antonio Rodi morì dopo le 7 del mattino dell’11 aprile 1991, perché, oltre ai medici legali della commissione d’inchiesta, in troppi ormai lo abbiamo riconosciuto in video sul ponte del Moby Prince quella mattina, vivo ma esanime a pochi metri da corpi carbonizzati, su quella lamina rovente dove purtroppo brucerà anche lui nelle ore successive in favore di telecamere e fotocamere. E qualcuno deve risponderne.



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