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L’introduzione di dati e statistiche nel calcio, da molti definita una «rivoluzione», ha contribuito a rendere più oggettiva la valutazione di certe cose che succedono in campo e ha cambiato quindi il lavoro e la percezione di addetti ai lavori ed esperti. Oggi informazioni sempre più vaste e sofisticate influiscono sul modo in cui le squadre si allenano e scelgono i calciatori da acquistare (o da cedere), e allo stesso tempo danno ai commentatori più strumenti per spiegare il calcio e per provare a intuire tendenze e sviluppi futuri.
Non è sempre stato così, anzi, la raccolta di dati è una pratica piuttosto recente: fino a una ventina di anni fa le uniche statistiche che venivano conteggiate e mostrate in televisione e sui giornali erano quelle legate alle cose visibili a occhio nudo, senza bisogno di particolari strumenti: i gol, i tiri in porta, i calci d’angolo, i falli; al massimo un generico “azioni d’attacco”, oppure gli assist, che ai Mondiali furono registrati la prima volta nel 1954 e in Serie A vengono conteggiati dal 1986 (e sulla cui definizione non c’è accordo universale: per alcuni sono solo i passaggi che portano a un gol, altri contano anche i tiri ribattuti in porta o i tiri di rigore guadagnati).
Anche il possesso palla, la prima metrica un po’ più complessa che si è iniziato a misurare, inizialmente veniva calcolato in modo diverso: un articolo del 2002 della Gazzetta dello Sport spiegava che le emittenti televisive utilizzavano tre cronometri manovrati da tre diversi addetti, «uno per ciascuna formazione più uno per i tempi morti. Quando un giocatore della squadra A tocca un pallone che prima era in possesso della squadra B, il cronometro della squadra A parte, e quello della squadra B si ferma, e così via». I tempi venivano poi tradotti in percentuali; c’erano anche società di statistica che avevano 22 cronometri, tanti quanti i giocatori in campo, per calcolare il possesso individuale.
Adesso invece per stabilire per quanto tempo una squadra abbia controllato il pallone rispetto all’avversaria si contano i passaggi che completa in una partita e poi li si confronta con il totale dei passaggi fatti dalle due squadre, ricavando la percentuale.
L’impulso a misurare il possesso palla dice molto anche di com’è cambiato il calcio sul campo nel frattempo: negli anni Duemila gli allenatori cominciarono ad avere sempre maggiore attenzione per questo aspetto del gioco, che venne poi esaltato al massimo ed esasperato dal Barcellona allenato da Pep Guardiola (con quello che venne chiamato “tiki-taka”). Salvo alcune eccezioni, prima le squadre giocavano generalmente in modo più “verticale”, cioè cercando il prima possibile di avvicinarsi alla porta avversaria con passaggi lunghi: il possesso palla permetteva invece di controllare meglio la fase difensiva (meno l’avversario ha il pallone, meno può creare occasioni per segnare) e allo stesso tempo di avere più tempo per imbastire quella offensiva.
Non è che da quel momento tutti abbiano iniziato a fare possesso palla, ma è diventata una strategia di gioco più diffusa, e c’è stato più bisogno che le statistiche ne tenessero conto. Oggi le azioni offensive sono diventate molto più “corali” e di squadra, e non c’è più bisogno di statistiche come quelle che contavano le “azioni personali” fatte da un attaccante: un segno del fatto che la bravura di un attaccante si misurava anche guardando la sua capacità di fare tutto da solo, mentre oggi è più importante che sappia giocare coi compagni.
Oggi i passaggi che fa ciascun giocatore e la maggior parte delle statistiche vengono conteggiati in modo automatico, attraverso un sistema di telecamere che scansiona il campo una quindicina di volte al secondo, catturando il movimento dei giocatori in campo e traducendolo in azioni: passaggi, recuperi palla, corse. La possibilità per i calciatori di indossare strumenti come tracciatori GPS o scarpe e parastinchi “smart” ha aumentato il numero e il tipo di avvenimenti calcolabili. Anche solo le statistiche più basilari mostrate al pubblico sono molte di più rispetto a quelle di vent’anni fa, quando l’unico dato per analizzare l’andamento della partita era quello dei tiri in porta e la locuzione expected goals (ci arriviamo) non aveva alcun significato.
A sinistra le statistiche della finale di Champions League del 2003, vinta dal Milan ai rigori contro la Juventus; a destra quelle della finale del 2023, vinta dal Manchester City per 1-0 contro l’Inter (UEFA)
L’idea di basarsi sulle statistiche per capire e spiegare le situazioni di una partita comunque non è nata all’inizio di questo millennio, ma molto prima. Già negli anni Cinquanta l’inglese Charles Reep pubblicò sul News Chronicle i risultati delle analisi che aveva fatto su varie partite di calcio, lavorando come consulente per alcune squadre come il Brentford. La conclusione piuttosto semplicistica, a cui Reep arrivò dopo essersi annotato ciò che succedeva in campo, era che la maggior parte dei gol nasceva da azioni in cui si facevano meno di tre passaggi, e quindi stabilì che la cosa fondamentale fosse far arrivare il più velocemente possibile la palla in attacco. Uno dei primi, rudimentali modelli statistici applicati al calcio quindi teorizzava la supremazia di quello che i calciofili in Italia chiamano spesso palla lunga e pedalare (long ball game, in inglese): era un calcio diverso da quello di oggi, diciamo.
Per decenni le statistiche sono rimaste più o meno uguali, e quindi partite e calciatori hanno continuato a essere valutati principalmente con impressioni più che altro soggettive. Ancora a fine anni Novanta, o all’inizio dei Duemila, televisioni e giornali mostravano solo le statistiche base e allenatori e staff avevano pochi strumenti a disposizione per individuare tendenze e andamenti futuri. Ciò che di recente hanno aggiunto dati e algoritmi è stata invece, tra le altre cose, la possibilità di creare modelli predittivi, e quindi di non basarsi solo su quello che si vede (quanti gol segna un giocatore, quanto è stanco a fine partita); gli expected goals sono il caso più evidente.
Gli expected goals, traducibile con “gol attesi”, misurano (in una scala da 0 a 1) la probabilità che un determinato tiro ha di diventare un gol. Partendo da centinaia di migliaia di tiri e situazioni già verificatesi, un algoritmo in sostanza riesce a dire quante volte mediamente un giocatore farà gol se tira da un determinato punto del campo, sulla base anche degli avversari che ha intorno e a quale distanza. È chiaramente una misura che non tiene conto della contingenza delle situazioni: per esempio quanti metri aveva percorso e quanto stanco fosse il calciatore che ha tirato, ma anche quanto talentuoso fosse e il momento della partita in cui è arrivato quel tiro: quasi tutti i più forti attaccanti infatti segnano più gol di quanti ne sarebbero attesi, e anche per questo alcuni commentatori li reputano una cosa inutile.
In realtà sono utili, per esempio, per riconoscere quali attaccanti molto prolifici sbagliano anche tanti gol (o comunque ne sbagliano di più di attaccanti dello stesso livello); oppure quali attaccanti di squadre minori riescono a convertire in gol frequentemente anche occasioni che a livello statistico non sarebbero buone.
In generale sono utili allo staff per capire se la squadra ha creato abbastanza situazioni potenzialmente buone per fare un gol anche se sta segnando poco, e quindi ha senso insistere su un determinato modo di giocare, o se viceversa sta ottenendo più di quanto sarebbe giusto attendersi, e quindi forse è il caso di intervenire comunque su qualcosa. I primi a teorizzarne l’utilizzo furono tre analisti che studiarono tutti i tiri e i gol di 37 partite dei Mondiali del 2002, nel tentativo di «indagare e quantificare 12 fattori che potrebbero influenzare il successo di un tiro»: le variabili considerate oggi sono molte di più.
In questa stagione di Serie A l’attaccante dell’Atalanta Mateo Retegui ha segnato 19 gol da 9,7 expected goals, se si escludono i tiri di rigore dalle statistiche: vuol dire che, se fosse rimasto nella media, avrebbe dovuto segnare circa 10 gol in meno. Logicamente questo dato da solo non dice molto su quanto potrà segnare Retegui in futuro e se il suo rendimento calerà almeno in parte per appiattirsi verso la media: potrebbe essere semplicemente diventato un attaccante molto efficace e capace di massimizzare le occasioni di fare gol; è legittimo però dire che stia vivendo una stagione abbastanza eccezionale, dal punto di vista dei gol fatti, visto che in passato non aveva mai segnato con questa frequenza.
Un po’ di statistiche dei dieci attaccanti con più gol in campionato quest’anno: xG sta per expected goals, npxG per expected goals esclusi i rigori (FBREF)
Come detto i dati hanno influenzato parecchio il modo in cui dirigenti e osservatori cercano i giocatori da acquistare. Una volta quasi tutto si basava su osservazioni e sensazioni; non che questo ora si sia perso, nel senso che tutti i più bravi osservatori e dirigenti prima di acquistare un calciatore lo guardano giocare, ma oltre a ciò che vedono si basano su una serie di indicatori che aiutano innanzitutto a scremare la lista di possibili obiettivi (esempio: si può cercare un centrocampista che faccia almeno un certo numero di passaggi e che recuperi un certo numero di palloni a partita), e poi a farsi un’idea più approfondita sulla resa futura del calciatore. Tutte le squadre di alto livello sia nella preparazione delle partite sia nel calciomercato mischiano metodi più “vecchio stile” a dati, statistiche e algoritmi.
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Quando un nuovo calciatore arriva in una squadra, chi lo ha acquistato sa già moltissime cose su di lui: è anche un modo per cercare di minimizzare il rischio di investimenti sbagliati. Il fatto che il calcio sia uno sport di situazioni e di relazioni lascia però sempre grossi margini di imprevedibilità, che nemmeno i dati più specifici possono colmare, e questo è in parte ciò che lo rende ancora oggi uno degli sport più seguiti. Di sicuro con l’arrivo dei dati è cambiata in parte la discussione intorno al calcio: se già il possesso palla era stato il primo grosso cambiamento, da quando ci sono statistiche come gli expected goals le analisi delle partite non si limitano all’epica, a dettagli di colore e a piccole notazioni statistiche come «la squadra X ha fatto più tiri in porta».
Ciononostante, anche per la loro complessità, oggi molti di questi dati sono ancora utilizzati e compresi principalmente dagli addetti ai lavori, mentre le persone comuni nei dibattiti sul calcio si basano ancora molto sulle stesse statistiche impiegate anni fa. Per molti, insomma, è ancora valida la frase che, in modo un po’ provocatorio, ripeteva spesso Adriano Galliani, uno dei dirigenti più esperti e vincenti nel calcio, secondo cui per acquistare gli attaccanti a lui bastava leggere l’almanacco o l’album delle figurine, cioè in sostanza guardare quanti gol avevano segnato in precedenza.
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