Le elezioni in Germania hanno dato (forse per l’ultima volta) la possibilità di un governo CDU-SPD, la cosiddetta GroKo che ha governato per decenni, compresa l’era Merkel. La coalizione conta oggi su una esigua maggioranza di deputati (328, + 13 sulla maggioranza) ma in termini di voti è solo al 48%. Se poi BsW avesse ottenuto il 5% (ha avuto 4,97%) la principale politica (riarmo) su cui c’è accordo, non sarebbe stata possibile, perché CDU+SPD non avrebbero raggiunto la maggioranza.
Sarà comunque un problema perché per investire 200 miliardi nelle spese militari (di cui parla Merz, il doppio del precedente Governo) bisogna alzare il debito e la Costituzione ora lo impedisce se non con una maggioranza qualificata di 2/3, che implicherebbe il voto favorevole di AFD e Linke (destra e sinistra) che mai voteranno per un riarmo anche perché metà dei tedeschi (46% nel sondaggio di febbraio 2025) sono contrari (anche all’invio di nuove armi all’Ucraina). La coalizione è dunque a rischio non solo perché mai così esigua ma per le idee differenti sulle principali questioni (solo sul riarmo concordano).
Gli effetti di una Germania dal governo debole e con una economia in crisi, si prolungheranno non solo sull’Italia ma su tutta Europa, in quanto la Germania non è il paese più popoloso e cardine per forza economica e culturale. Si capisce bene quindi lo stato di panico delle élite europee.
Poiché i media parlano solo di avanzata dei “nazisti”, può essere di un certo interesse capire le ragioni dello spostamento dei tedeschi su posizioni radicali (di opposizione a chi ha governato) che hanno premiato non solo la destra di AFD (20,8%) ma anche Linke (8,7%) e BsW (4,97%, che 5 anni fa non esisteva), nato da una scissione della Linke, la quale viaggiava sotto il 5% e ora ha (Linke+BsW) il 13,7% che salgono al 34,5% con AFD, ma che nei Länder della Germania Est salgono al 50% e più.
Tutti i partiti che hanno governato sono stati penalizzati e in particolare SPD (16,4%) e Verdi (11,2%), ma anche i Liberali (2,7%), i quali hanno fatto cadere il Governo semaforo perché non volevano un aumento del debito pubblico. Anche CDU-CSU registra uno dei peggiori risultati del dopoguerra (28,2%). Se questi trend dovessero proseguire alle prossime elezioni, il Governo non sarà più nelle mani dei moderati partiti liberali che hanno guidato la Germania nel secondo dopoguerra.
Cosa sta dunque succedendo? I nostri media, al di là del “pericolo nazista” (AFD), poco o nulla dicono della situazione in cui versa da tempo la Germania, anche perché in base ai dati del PIL e della borsa le cose andavano bene, anche se negli ultimi due anni è arrivata la recessione (Pil: -0,3% nel 2023, -0,2% nel 2024 e +0,3% previsto per il 2025; le previsioni a medio termine della Buba -banca centrale- sono pessime).
Eppure la borsa di Francoforte è in forte crescita anche nel 2024. Il Dax è il mercato finanziario più influente d’Europa (nato nel 1585) e quota le principali imprese tedesche. Ha guadagnato +30% nell’ultimo anno di recessione, quasi il doppio di New York (+16% o di Milano +18%) e meglio delle altre borse europee.
Già qui troviamo una conferma del disaccoppiamento tra economia reale e finanza in tutto il mondo occidentale: se le cose vanno male per la maggioranza di chi lavora, non è detto che altrettanto avvenga per la minoranza ricca e globalista che si occupa di finanza. Negli ultimi anni c’è stato un indebolimento dell’euro sul dollaro che favorisce la Germania in quanto uno dei maggiori esportatori al mondo. L’export rafforza le aspettative di profitto delle imprese tedesche (non quelle dell’auto che si sono ridotte nel listino dal 17% al 7%) ma di quelle tecnologiche, finanziarie e altre industriali che fanno affari fuori dalla Germania (soprattutto in USA, ma anche nell’est europeo che ha visto un boom dell’occupazione con l’allargamento dopo il 2004). Nella figura allegata si nota come il tasso di occupazione nelle regioni dell’Est (qui polacche e ungheresi) sia cresciuto dal 2012 al 2023 di 15-20 punti rispetto ai 2-4 punti di quelle italiane e tedesche. Oltre agli occupati sono molto cresciuti anche i salari all’Est ed è comprensibile l’americanismo di queste aree. L’allargamento comporta però (nel neo-liberismo) vantaggi per chi entra ma svantaggi per molte aree deboli di chi era già dentro. Ciò non significa che non ci debba essere allargamento ma, in questi casi, la parola chiave è gradualità. Vale anche per l’immigrazione. In assenza di tale gradualità i ceti colpiti si rivoltano contro chi ha governato e, nel medio periodo, il rischio (come sta avvenendo) è l’implosione della UE.
In tal senso l’Unione Europea è nata non per “fregare l’America” (come ha detto Trump), ma proprio per il contrario: per fare un grande favore agli USA, uniformando le 27 norme nazionali in un unico mercato che favoriva le imprese americane, anche per l’assenza di uno Stato Sovrano Europeo. Ciò spiega perché molte imprese tedesche di eccellenza (ma anche italiane) sono state acquistate (o hanno forti partecipazioni) da fondi Usa. Sono quindi diventate più imprese “americane” che tedesche seppur quotate alla borsa di Francoforte, i cui profitti sono attesi in crescita anche se generano occupazione altrove (USA, Cina,…). Sono quindi “tedesche“, come “italiana” è Stellantis. In realtà nulla hanno a che fare coi paesi in cui sono quotate e dove sono nate (Stellantis peraltro è quotata alla borsa di Amsterdam).
Il forte export tedesco (3.700 miliardi, 70% del Pil tedesco) ha generato non solo un mostruoso saldo commerciale attivo, forti profitti per le imprese tedesche, ma non si è tradotto in una crescita di consumi e investimenti (domanda interna) come pure era possibile, schiacciati dalla politica di pareggio di bilancio (ora addirittura messa in Costituzione come auto vincolo). Questo spiega perché il debito pubblico tedesco si sia ridotto dall’80% del Pil del 2012 al 64% attuale.
In un’ottica di medio periodo l’economia tedesca ha visto (come tutti i paesi occidentali) rallentare la crescita della sua produzione: 2% all’anno nel 1980-2000, 1% nel 2000-2014, 0,8% dopo di allora, recessione nell’ultimo biennio. A causa della politica di pareggio di bilancio ha ristagnato tutta la spesa pubblica, cioé la domanda interna. Il riflesso è un avanzo della bilancia dei pagamenti correnti, che nell’ultimo decennio ha oscillato tra il 7% e il 9% del Pil, ben oltre quanto tollerato dalle stesse norme europee. Questo avanzo non è dovuto tanto alla competitività del made in Germany, che è solo moderatamente migliorata in termini di costo unitario del lavoro, ma ad una minore importazione di merci e servizi, dovuta alla limitata spesa pubblica, cioè mancati investimenti in infrastrutture (strade, porti,…). Questo spiega la crescita del risparmio nazionale dei tedeschi (dai 6 agli 8 punti di Pil maggiore dell’accumulazione di capitale). A causa di questi limitati investimenti sia la produttività del lavoro sia la produttività totale dei fattori sono progredite meno che in passato, mentre l’occupazione è salita (ma poco all’Est) per assicurare lo stesso prodotto (e per la forza dei sindacati), ma sfruttando anche i molti mini lavori della riforma Hertz del 2003 che sono andati a vantaggio soprattutto degli immigrati. È vero che i salari reali tedeschi, a differenza di quelli italiani, sono aumentati negli anni 2000 ma appena dello 0,5% l’anno, pur essendo il tasso di disoccupazione sceso al 3,1% nel 2023 (dal 9% medio del passato).
A questo si è unità la delocalizzazione nei paesi vicini dell’Est europa, Usa e Cina delle imprese che con la guerra con l’Ucraina ha mandato alle stelle le materie prime e gas, facendo implodere la più solida economia industriale del mondo. Si può stimare che, se il sostegno della politica economica alla domanda interna non fosse mancato, l’economia tedesca avrebbe continuato a crescere del 2% l’anno come Pil. Ovviamente questo avrebbe comportato investire di più sulla domanda sociale e interna e il saldo del pubblico bilancio non sarebbe passato dal disavanzo medio del 2,6% del 1997-2007 all’avanzo che, emerso nel 2013, è poi salito fino all’1,9% nel 2018, così da ridurre il debito governativo all’attuale 64%, dall’80% del 2012. Invece gli investimenti pubblici (consistenti) dopo l’unificazione delle due Germanie sono stati gradualmente tagliati. Le infrastrutture si sono deteriorate, specie all’Est, per cui oggi ci sono 800 ponti pericolanti, incluso il Carolabrücke di Dresda sull’Elba, lungo 100 metri, crollato nel 2024.
Nella Teoria Generale del 1936 e in scritti successivi Keynes aveva insistito sugli investimenti in infrastrutture materiali e immateriali (sanità, istruzione, ricerca, messa in sicurezza del territorio, servizi socialmente utili,…), quale sostegno all’economia. Secondo Keynes hanno un effetto moltiplicativo su occupazione, salari e produttività, per cui nel lungo periodo gli investimenti pubblici si autofinanziano e non aumentano il debito pubblico, in quanto la maggiore occupazione e reddito che determinano accresce il gettito fiscale. Fondamentale nei pubblici bilanci è la distinzione keynesiana tra uscite in conto capitale (spese che sono investimenti), da promuovere (escluse però le spese militari), e uscite di parte corrente, da contenere. La Germania ad un certo punto si è mossa in direzione contraria, influenzando anche gli altri paesi dell’Unione Europea, che non hanno avuto la lungimiranza di opporsi.
Ha pesato ovviamente anche l’aumento delle materie prime e del gas (ora americano a prezzi alti e prima russo a prezzi bassi) e di un conflitto alle porte di casa che molti ritenevano si potesse evitare. Così mentre fioriva l’export, i salari degli operai non crescevano (specie all’Est) e specie quelli della manifattura, calmierati dalla forte immigrazione, disposta ad accettare basse remunerazioni.
L’allargamento ad est ha portato molte imprese tedesche ad insediarsi in Polonia e altri baltici dove le imposte sono minori e si è iniziata ad invertire nella Germania orientale (anche per i bassi investimenti) la tendenza alla riduzione del divario salariale rispetto alla Germania Ovest, il cui reddito medio pro capite è circa 1,6 volte quello a Est.
I tedeschi spinti da un ideale di fratellanza hanno immesso enormi sussidi in Germania est e portato il cambio del marco a 1:1 (quando era 1:11, pensando fosse una buona idea), così però molte imprese dell’est hanno chiuso non essendo più competitive e molti abitanti sono emigrati all’Ovest (dal 1990 al 2016 gli abitanti all’Est sono scesi da 17,8 a 16,2 milioni). Ci sono poi tutti gli altri effetti della globalizzazione: polarizzazione tra città forti e aree interne, crescita enorme degli affitti nelle città tedesche (e a Berlino), solitudine, depressione, conflitti identitari nelle città per la rapida immigrazione, etc. che hanno portato ad una radicalizzazione nel voto. Una intera società, specie quella dell’Est, è così in “tensione” come una corda di violino e continuando sulla stessa linea si va diretti verso l’implosione tanto più se si spenderà per più armi e meno welfare e investimenti. Austria e Germania si avviano quindi ad una clamorosa svolta a destra.
Nei giorni scorsi Carlo Cottarelli (che dirige alla Cattolica l’Osservatorio dei conti pubblici) ha contestato i dati del britannico Int. Institute of Strategies Studies che dice che l’Europa spende in armi meno della Russia. Spende invece molto di più (730 miliardi vs 462 della Russia che è in piena guerra). Invitati a rettificare i dati, i media europei si sono rifiutati. Del resto propaganda e riarmo erano anche una politica di Hitler (a proposito di nazisti) che nel 1935 avviò enormi investimenti proprio nel riarmo.
I dirigenti AFD sono un pò nazi, ma sono anche contrari al riarmo e favorevoli al dialogo con la Russia e conoscono bene la crisi che vivono i tedeschi. Non sarà mettendosi un bella benda sugli occhi e gridare “arrivano i nazisti” che si bloccherà il fenomeno in atto. Occorre togliere le cause che portano a quel voto.
Perché la classe dirigente tedesca, da Merkel a Scholz, ha governato la propria economia nel modo increscioso descritto? Una ipotesi è che Keynes venga celebrato nei convegni ma non sia stato ancora applicato in quanto è osteggiato dai neo-conservatori (molto forti anche in Germania) sulla base delle teorie di Mises, Hayek, etc., per cui la grande cultura tedesca nell’arte, nelle scienze, nella letteratura sia prigioniera in economia della paura del debito, delle grandi spese pubbliche (anche perché lo stesso Hitler ci puntò una volta al potere). Una seconda ipotesi è che si sia frenata la domanda interna per favorire un surplus commerciale in modo che la posizione netta della Germania verso l’estero fosse creditoria e che tale “ricchezza finanziaria” non solo premiasse le imprese e l’élite che governa, ma rafforzasse l’influenza finanziaria (e politica) della Germania sui partner. Politica che continua se è vero che il nuovo cancelliere Merz più che un politico è un finanziere: ha lavorato nella finanza americana negli ultimi 15 anni (in BlackRock dal 2016 al 2020 come presidente del Consiglio di sorveglianza, in Bosh, Ernst&Young, Hsbc).
Quali potevano essere gli effetti di massicci investimenti all’interno e sull’Europa stessa, tipo PNRR? Una crescita dell’occupazione e dei salari di certo maggiore e che, di fatto, sono stati sottratti al popolo tedesco. C’è chi stima che in 25 anni sarebbero mancati alla domanda interna tedesca mille miliardi di dollari. Sarebbe il costo, economico e politico, del neo-mercantilismo tedesco. Una politica che ora vuole avviare anche Trump, il quale avrà (anche lui) le sue “gatte da pelare” coi dazi gli Usa in quanto potrebbe crescere l’inflazione e vedere molti boomerang. Per esempio, le imprese tedesche/americane oggi localizzate in Usa, vedranno ridursi i loro profitti e protesteranno.
Nella crisi tedesca ci sono poi altri fattori. Le normative europee sono cresciute moltissimo per le aziende che si lamentano dei costi e dei vincoli che altri paesi non hanno, un fattore che ha spinto a delocalizzare le produzioni ad Est (Polonia, Romania,…), Cina, Stati Uniti ma anche in Svizzera. Il saldo tra chi entra e chi va in pensione è di 300-400mila persone. Sarebbe necessaria una immigrazione legale e di personale specializzato e in questo momento mancano un milione di lavoratori, ma il sentiment generale è quello di limitare i flussi degli immigrati a costo di perdere reddito. In definitiva mi pare che ci sia un forte deficit di analisi e conoscenza che viene coperto con semplificazioni (dagli al nazista) come si faceva anche con la pandemia (dagli all’untore), ma semplificare non è una grande idea.
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