Troppo? Troppo poco?
Bella domanda, se non sappiamo di cosa si parla è difficile rispondere. Bisogna anche tener conto delle proporzioni che una simile domanda sottende: troppo per cosa? Un minuto è decisamente troppo se lasciamo un gelato al sole, ma è anche troppo poco se dobbiamo cuocere la pasta.
Troppo o troppo poco, spesso dipende dal caso in questione. Dipende da cosa viene misurato e – soprattutto – da chi lo misura. Magari questo qualcuno vuole il gelato sciolto o la pasta molto al dente.
Parliamo di soggettività, e del momento in cui un certo soggetto osserva le cose. Parliamo di prospettive diverse in base a chi guarda, se è ottimista o se è pessimista, se interno o esterno a una situazione, se vede il bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto
La cosa che unisce queste due misure opposte non è altro che la loro linea di demarcazione: l’occhio di chi guarda; e dove questo fa finire il “troppo poco”, poi fa cominciare il “troppo”. Sono due stati interconnessi, legati assieme da un fil rouge che è esterno, poiché è riconosciuto da qualcuno, ma è anche interno, altrimenti come potrebbe essere individuato?
Una duplicità di situazioni che riassume molto bene la matassa che ci apprestiamo a sbrogliare nel Sunday View di questa settimana. Si parla di Africa, e noi stiamo per sbobinare un thread di argomenti tutti interconnessi tra loro.
Siete pronti? Via.
L’AFRICA VISTA DA FUORI
Piagnucolare non serve a niente. Lo ha detto Célestin Monga, uno che vanta una cattedra di economia ad Harvard, oltre che essere ex vicepresidente della African Development Bank e consulente della World Bank.
La frase di Monga è legata alla sospensione degli aiuti statunitensi al continente africano, dove la vita e i bisogni di milioni di persone sono legati a doppio filo ai sussidi della United States Agency for International Development – la Usaid che avevamo citato nello scorso Sunday View, ricordate? –.
Secondo i dati presentati dallo stesso Monga, l’export africano genera circa 610 miliardi di dollari all’anno, eppure la cifra che rimane sul continente per il suo sviluppo è sempre misera. Che succede? Un caso particolare legato all’export è quello del cobalto congolese: questo metallo è salito alla ribalta con la diffusione delle batterie per veicoli elettrici, e il Congo ne detiene il 70% dell’estrazione globale. Il fatto è che con la crisi dell’auto elettrica in occidente, tutta quella produzione di cobalto è diventata presto un esubero, con annesso calo del valore sui mercati americani ed europei. Il Congo ha quindi deciso di bloccare l’export per tre mesi nella speranza di far rialzare i prezzi nella parte centro-sinistra della cartina, ma sembra che l’unico lato a esserne – lievemente – affetto sia quello destro. La Cina, infatti, controlla le miniere più importanti del Congo, oltre che tre quarti della raffinazione del cobalto. Anche per questo, le sue compagnie minerarie – che avevano rilevato le miniere congolesi dalle loro corrispettive americane, just for info – sono state le uniche a subire qualche scossa dalla chiusura dell’export africano.
Rimanendo sempre su cobalto e affini, l’African Development Bank e Kpmg hanno presentato una valuta legata proprio ai minerali estratti sul continente, chiamata African Units of Account – musicalmente riassunta in Aua –. Questa moneta “non circolante” permetterebbe ai singoli stati di poter gestire meglio le opportunità offerte dagli investitori esteri, legando il valore dei loro giacimenti a Euro e Dollaro, anziché alle fragili valute locali, incentivando i capitali verso un Continente che porta in dote più di un terzo delle risorse rilevanti per l’energia green, ma che raccoglie solo una minima parte degli investimenti internazionali per la sostenibilità.
Proprio in merito a questo, sembra che l’Italia sia in prima fila sul tema: il nostro Paese è il maggior importatore europeo di fonti fossili dall’Africa, per un ammontare di 30,3 miliardi di euro spalmati su quindici Paesi del continente. Stando a quanto esposto nel famoso Piano Mattei per l’Africa, e nella sua intenzione di diventare un hub energetico europeo, l’Italia vuole incentivare una serie di progetti volti all’energia sostenibile, coinvolgendo le aziende nostrane sul suolo africano e creando un circolo virtuoso di sviluppo energetico e sociale che abbia riscontri internazionali e locali.
Cobalto e minerali critici, Usa e Cina, monete salva-economie ed energie rinnovabili: tutte queste cose si intrecciano tra loro sul continente africano, come tante palline colorate chiuse in una scatola. Per scoprire di che colore sono queste palline, però, occorre aprirla, questa scatola. E chissà che non ci troveremmo dentro altro…
NON DIRE GATTO SE…
No, niente palline. In compenso dentro la scatola abbiamo trovato un gatto. Non uno qualunque, però. Avete presente il gatto di Schrödinger? Quello usato come esempio nel 1935 dallo scienziato austriaco che voleva dimostrare ai suoi colleghi che anche la fisica può essere paradossale. Quello che, sempre in questo esempio teorico, era stato chiuso in una scatola assieme a una fiala di veleno letale, facilmente rompibile. Al povero animale bastava poco per inalarne i fumi e lasciarci le penne, ma, secondo questo paradosso, non possiamo sapere che fine abbia fatto finché la scatola non viene aperta. Ecco, secondo alcuni fisici, invece, il gatto sarebbe al contempo sia vivo che morto fintanto che non si apre la scatola.
Un po’ assurda come conclusione, vero?
In realtà questa è un’estremizzazione dello stesso Schrödinger, che portò all’eccesso quanto affermato dai colleghi: siccome gli elettroni possono essere osservati in un determinato istante o come particelle, o come onde, quando non li guardiamo questi possono verosimilmente essere sia in un modo che nell’altro.
– L’abbiamo semplificata al limite della blasfemia, chiediamo scusa a tutti i fisici che ci leggono. –
Tornando a Schrödinger, l’esempio del nostro austriaco voleva proprio dimostrare che l’affermazione dei suoi colleghi poteva andare bene per gli elettroni, ma non certo per un gatto in una scatola. Un concetto di “doppio stato” che poteva essere detto in linea teorica per un’entità microscopica, non certo per qualcosa di più grande e tangibile. Per dirla in altre parole, è assurdo pensare che un gatto possa essere vivo e morto allo stesso tempo.
L’AFRICA VISTA DA DENTRO
Per quanto assurdo, l’Africa riscrive un po’ questo paradigma.
L’abbiamo detto: sul suolo africano succedono tante di quelle cose interconnesse, che per capirle appieno bisogna fermarsi un attimo, aprire la scatola del continente, e guardarci per bene dentro. Non ci troveremo palline che possono essere di un colore o di un altro, o gatti che possono essere sia vivi che no; ci troveremo una terra ricca di opportunità, oltre che di rischi, un continente costretto a valorizzare ciò che ha all’interno solo volgendosi all’esterno, un sistema che ha bisogno di Usa e Cina e che ne subisce le decisioni. Una terra che è al contempo soggetto e oggetto sia dei suoi vantaggi, che dei suoi svantaggi. Fintanto che non ci fermiamo a osservarla, è entrambe le cose assieme: una scatola chiusa, nel senso più proverbiale del termine, qualcosa che non possiamo conoscere se prima non ci guardiamo dentro. Come ci insegna il paradosso di Schrödinger, bisogna portare a livello macro un caso per poterlo analizzare meglio, evidenziandone le potenzialità e gli sviluppi. Ma quanto è lecito, per noi, guardare dentro la scatola dell’Africa? Quanto possiamo osservare, conoscere, e metterci il naso? Torniamo alla domanda iniziale: quanto è troppo, e quanto è troppo poco? Di nuovo, dipende dal soggetto. C’è chi guarda la scatola solo da fuori, chi si accontenta di un fugace sguardo dopo averla aperta, e chi invece si mette a ravanare al suo interno perché vuole toccare con mano il contenuto.
BONUS TRACK
Gli ottimisti direbbero che il gatto dentro la scatola è vivo, i pessimisti invece direbbero che il gatto dentro la scatola è morto. I realisti invece direbbero che, in fondo, l’Africa non potrebbe mai entrare in una scatola.
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