Manuel Mingoni: “Il vino ideale è quello che ti fa viaggiare. La crisi? C’è chi produce e chi fa bottiglie” – Virtù Quotidiane

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Personaggi 04 Mar 2025 19:02

Manuel Mingoni

TIVOLI – “Il mio vino ideale? Quello che mi fa viaggiare, che mi racconta il territorio, la mano del produttore, il clima, il lavoro che c’è dietro. Lo stesso che propongo ai miei clienti”. Manuel Mingoni, 32 anni, di Tivoli (Roma), è il promettente manager della trattoria contemporanea Li Somari e responsabile della carta vini del fine dining Al Madrigale, due delle top insegne di Tivoli lanciate da Andrea La Caita, il vulcanico manager che col suo gruppo imprenditoriale sta orientando l’offerta gastronomica della zona tiburtina (e non solo).

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Sommelier e “comunicatore” del vino e dell’olio, Mingoni ha un debole per il Pinot Noir di Borgogna ma anche per il più territoriale Cesanese “capace di esprimere qualità e complessità notevoli anche in base alla zona di produzione”.

“Quando bevo vino” dice l’emergente professionista a Virtù Quotidiane, “voglio che mi porti là dove è stato fatto”.

Mingoni, dalla Borgogna appena visitata che immagine ha riportato?

Di un posto dove produrre vino è religione quotidiana, filosofia di vita, cultura. Una mentalità ben diversa dalla nostra, abbiamo molto da imparare. Mi ha colpito la capacità dei vigneron di dare valore alle grandi diversità di terroir tra vigneto e vigneto, tra un appezzamento e l’altro anche a pochissimi metri di distanza l’uno dall’altro. Trovi il viticoltore che vinifica parcella per parcella tirando fuori una bottiglia diversa per ogni espressione di quell’uva. Valorizzano molto quello che hanno e percepisci l’amore viscerale nel farlo, il terroir è centrale, è il cuore della produzione.

Da noi che succede?

Non è che i produttori non mettano amore sia ben chiaro, ma si cerca un po’ troppe di imitare qualcosa invece di cercare una propria identità. È una mentalità diversa perciò dico che c’è chi produce vino e chi fa bottiglie. Penso alle zone dei territori vicini come i Castelli romani: non si è mai riusciti a dare valore al bellissimo territorio variegato di origine vulcanica, che dà buone uve soprattutto in alcune zone, o alla zona del Cesanese (coltivato nelle province di Roma e Frosinone, ndr) che solo da vent’anni a questa parte i produttori hanno iniziato ad imbottigliare, raggiungendo grandi risultati. Come punti di riferimento troviamo aziende storiche come Alberto Giacobbe, Damiano Ciolli di Olevano Romano, La Visciola e Carlo Noro al Piglio, e aziende giovani ed emergenti come Cantine il Moro. Bisogna crederci e valorizzare quello che c’è: credere nel Cesanese, nel Bellone, la Passerina del Frusinate. Qualcuno cerca la novità avventurandosi nella spumantizzazione, senza valorizzare quello che può essere l’autoctono. Per portare un riferimento eccellente, nel Lazio non abbiamo mai avuto produttori lungimiranti come Valentini o Emidio Pepe, in questo senso già l’Abruzzo è molto più avanti a livello di vinificazione.

Nelle altre regioni del Belpaese qual è il discorso a suo avviso?

Siamo un Paese variegato e complesso come numero di vitigni, molto più della Francia, ma andrebbero valorizzati per esprimere esprimere molto di più il territorio. Ad esempio nel Chianti, zona che amo, troviamo alcune aziende tra le migliori del panorama nazionale, ma trovi anche vini che paghi un po’ troppo per quello che valgono. Penso anche alla Franciacorta dove fino a qualche tempo fa si sono prodotte bolle di tutto rispetto ma ultimamente si fatica a distinguere tra un prodotto e l’altro, o tra Franciacorta e Prosecco, anche a livello di prezzi, più quantità va a discapito della qualità. A discolpa voglio segnalare il prodotto di Nicola Gatta e Alessandra Divella a Gussago (Brescia) con spumantizzazioni di altissimo livello a mio avviso, siamo fuori il territorio della Franciacorta, a 400 metri dì altitudine dove troviamo un terreno ricco di gesso e calcare e il prodotto cambia completamente.

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Quale altra disparità ha riscontrato in Francia?

Nei posti dove sono stato in Borgogna, tutti i vigneron ci hanno aperto bottiglie anche molto costose, Chevalier Montrachet, Musigny Grand Cru, Corton-Bressan Gran Cru, per fare alcuni esempi, bottiglie che sfiorano i mille euro e più. Qui quanti sono disposti a farlo per il piacere di far conoscere i propri prodotti? Inoltre, se in cantina arriva il cliente miliardario, lì deve mettersi in fila come tutti gli altri, qui non succede la stessa cosa.

Oltralpe solo fascino e perfezione?

In Francia l’accoglienza non mi ha fatto impazzire. In linea di massima dico che non mi puoi mettere un vino più pregiato nello stesso calice del vino precedente, com’è successo anche nei ristoranti.

Cosa intende trasmettere nella nuova carta dei vini per il progetto Tivoli?

Intendo incentrare la ricerca nei territori italiani, vini adeguati alla grande cucina di chef Adriano Baldassarre. Poi vorrò inserire etichette internazionali a partire dal mio ultimo viaggio con una micro carta della Borgogna fatta con metodo, articolata per zone di produzione. Non sarà facile perché tanti vini hanno prezzi molto importanti. Penso a una carta che trasmetta all’ospite dei miei viaggi e delle mie bevute e anche della mia appartenenza al territorio. In questo senso mi sento di far conoscere Cantina Le Macchie, azienda di Rieti vera e propria chicca del territorio, con prodotti come Strappo alla Regola metodo classico a base di Malvasia del Lazio e Sangiovese, produzioni con Gewurztraminer e Riesling a Rieti, città che in certi periodi registra la più alta escursione termica tra giorno e notte. La vera nicchia è il Cesanese Nero autoctono della zona. Sono questi i vini che vado ricercando, un motivo di racconto che i grandi vini commerciali non hanno.

Come invoglia i clienti a scegliere il vino alla luce della nuova ondata “anti-alcol”? E cosa pensa del vino dealcolato?

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Devo dire che non c’è un grosso calo, il consumo del vino è rimasto pressoché immutato, anche i tavoli da 2 prendono la bottiglia. Dal canto mio fidelizzo il cliente proponendo un buon prodotto che abbia qualcosa da raccontare. Il dealcolato no, l’alcol è parte integrante del vino, toglierlo significa andare a bere un succo di frutta un po’ più complesso.

Carta bollicine, come articola la proposta?

Negli ultimi anni in Italia si è parlato tanto di vini spumanti da territori d’elezione come Trento Doc e Franciacorta, ma anche da territori che si sono dati da fare come l’Abruzzo o l’Alta Langa, lo stesso Lazio ha recepito questa tendenza seppure in tono minore. Ma bisogna stare attenti e distinguere, personalmente nel mio territorio preferisco più un metodo charmat fatto bene, che l’avventurarsi in un metodo classico tanto per farlo. Il vino non deve essere moda, deve essere identità.

Abbinamento dell’olio al piatto, qual è la sua filosofia?

Mio personale obbiettivo, prima di tutto, è riportare in carta la selezione di olio evo da servire ai clienti nel nostro benvenuto, una decina di oli che raccontino il territorio regionale e l’Italia in generale. Ho molto a cuore gli oli del territorio, fatti da produttori che conosco come Gianluca Lauri che a Tivoli produce multivarietale di Itrana, Rosciola e Carboncella. Un posto speciale merita la Salviana di Pietro Silvi (presidio Slow Food) cultivar presente nel Dop della Sabina condivisa tra la Sabina Romana e quella Reatina. Dalla Tuscia Viterbese attingo da Maria Clara Tiberi la monovarietale di Caninese e il multivarietale composto da Maurino, Leccino e Frantoio. Apprezzo molto anche l’Intosso di Casoli, presidio Slow Food, firmato da Tommaso Masciantonio. Un olio di eccellenza eleva la qualità delle materie prime nel piatto, viceversa un cattivo olio distrugge la pietanza.


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