Quel “no” alle armi lungo un intero pontificato

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di Salvatore Cernuzio

Le uniche “armi” a cui Papa Francesco ha dato il suo assenso sin dal primo momento in cui è salito sul Soglio di Pietro e per i successivi dodici anni sono state il dialogo e l’incontro e, per i cattolici, la preghiera e il digiuno. Per il resto è stato sempre e solo un grande “no” quello pronunciato dal Pontefice argentino agli armamenti, al loro commercio, a un mercato che va sempre più fiorendo laddove marcisce la vita di intere popolazioni. Un “no” che risuona ancora potente — seppur in un momento in cui da oltre venti giorni non si ascolta la voce del Papa — alla luce degli attuali piani di riarmo dell’Europa annunciati dalla presidenza della Commissione Ue.

Ha iniziato con la Evangelii gaudium, l’esortazione apostolica che dal 2014 ha tracciato il piano del suo magistero, Francesco, a stigmatizzare quei «meccanismi dell’economia attuale» che «promuovono un’esasperazione del consumo». E questo «consumismo sfrenato, unito all’inequità», scriveva, «danneggia doppiamente il tessuto sociale. In tal modo la disparità sociale genera prima o poi una violenza che la corsa agli armamenti non risolve né risolverà mai» ma «serve solo a cercare di ingannare coloro che reclamano maggiore sicurezza, come se oggi non sapessimo che le armi e la repressione violenta, invece di apportare soluzioni, creano nuovi e peggiori conflitti».

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Nello stesso anno, il 2014, nel primo e indimenticato incontro in Vaticano con i Movimenti Popolari, Francesco condensava in una espressione, sempre poi ripetuta, l’emergenza di quest’epoca: «La terza guerra mondiale» combattuta «a pezzi». Una denuncia che oggi si può osservare come profetica, considerando il fatto che è stata pronunciata quasi un decennio prima della invasione russa all’Ucraina e la deflagrazione di nuove violenze nella Striscia di Gaza.

«Ci sono sistemi economici — affermava il Pontefice in quello stesso discorso — che per sopravvivere devono fare la guerra. Allora si fabbricano e si vendono armi e così i bilanci delle economie che sacrificano l’uomo ai piedi dell’idolo del denaro ovviamente vengono sanati. E non si pensa ai bambini affamati nei campi profughi, non si pensa ai dislocamenti forzati, non si pensa alle case distrutte, non si pensa neppure a tante vite spezzate».

Dieci anni dopo, il Papa non ha mutato il suo pensiero ma, anzi, lo ha acuito e rinvigorito, alla luce delle notizie provenienti dall’est-Europa e dalla polveriera mediorientale. Notizie che «sembrano farci perdere la fiducia nelle capacità dell’essere umano», come diceva nell’udienza alla Confederazione nazionale artigianato e piccola media impresa nel novembre 2024. «Viviamo tempi di guerra, di violenze», affermava il Papa, condividendo quell’aneddoto personale reiterato poi in tanti discorsi e interviste: «Mi ha detto un economista che gli investimenti che danno più reddito oggi, in Italia, sono le fabbriche delle armi. Questo non abbellisce il mondo, è brutto. Se tu vuoi guadagnare di più devi investire per uccidere… Abbellire il mondo è costruire pace».

Questo pensiero ha preso la forma di una proposta concreta, da parte del Papa, presentata agli occhi dei responsabili delle nazioni nel suo discorso — non pronunciato personalmente, ma letto dal cardinale segretario di Stato, Pietro Parolin — alla Cop28 del 2023 a Dubai: «Quante energie sta disperdendo l’umanità nelle tante guerre in corso… conflitti che non risolveranno i problemi, ma li aumenteranno! Quante risorse sprecate negli armamenti, che distruggono vite e rovinano la casa comune! Rilancio una proposta: con il denaro che si impiega nelle armi e in altre spese militari costituiamo un Fondo mondiale per eliminare finalmente la fame».

La stessa proposta è tornata nella Spes non confundit, la bolla di indizione del Giubileo, cristallizzata dal Papa, però, non più come idea che qualche uomo o donna di buona volontà possa raccogliere, bensì come iniziativa concreta da sviluppare durante l’Anno Santo insieme all’abolizione della pena di morte, il condono del debito per i Paesi poveri e il far tacere — appunto — definitivamente le armi.

Ripercorrendo a ritroso gli interventi pubblici e gli atti magisteriali di Papa Francesco non si contano gli appelli contro armi e riarmi: dall’Urbi et Orbi del 2020 in una Basilica di San Pietro isolata, mentre il mondo lottava con la pandemia di Covid, in cui il Papa affermò: «Non è questo il tempo in cui continuare a fabbricare e trafficare armi, spendendo ingenti capitali che dovrebbero essere usati per curare le persone e salvare vite», passando per il messaggio al Globsec Bratislava Forum (giugno 2021) in cui domandava di convertire «le armi in cibo», fino al lungo discorso al g7 del giugno scorso in Puglia — primo Pontefice a prendervi parte — quando, evidenziando rischi e potenzialità dell’Intelligenza Artificiale, Francesco volle insistere su un punto: «In un dramma come quello dei conflitti armati è urgente ripensare lo sviluppo e l’utilizzo di dispositivi come le cosiddette “armi letali autonome” per bandirne l’uso, cominciando già da un impegno fattivo e concreto per introdurre un sempre maggiore e significativo controllo umano». Da lì, le parole divenute tra i principali moniti sull’IA: «Nessuna macchina dovrebbe mai scegliere se togliere la vita ad un essere umano».

Ma se c’è un palco dal quale il pastore della Chiesa cattolica universale ha fatto risuonare più di ogni altro il suo “no” alle armi sono stati i viaggi apostolici internazionali. Già nel 2015, durante la Messa a Sarajevo, tra i luoghi che più di altri hanno conosciuto la devastazione della guerra, Francesco si scagliò contro il clima di odio e chi «vuole crearlo e fomentarlo deliberatamente», ovvero «coloro che cercano lo scontro tra diverse culture e civiltà, e anche coloro che speculano sulle guerre per vendere armi».

«Le armi e la repressione violenta, invece di apportare soluzioni, creano nuovi e peggiori conflitti. L’equità della violenza è sempre una spirale senza uscita; e il suo costo, molto elevato», ammoniva il Papa, invece, nella Messa del 2019 a Maputo (Mozambico). Mentre durante lo storico — perché altrimenti non si può definire — viaggio del 2021 in Iraq, il Pontefice, dinanzi alle autorità a Baghdad, elevò il suo grido: «Tacciano le armi! Se ne limiti la diffusione, qui e ovunque!». E ai rappresentanti delle diverse confessioni, incontrati successivamente, chiese poi di «convertire gli strumenti di odio in strumenti di pace»: «Sta a noi esortare con forza i responsabili delle nazioni perché la crescente proliferazione delle armi ceda il passo alla distribuzione di cibo per tutti».

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Non si dimentica, inoltre, il discorso alle autorità del Kazakhstan nel 2022 con l’invito a impegnarsi di più «a promuovere e rafforzare la necessità che i conflitti si risolvano non con le inconcludenti ragioni della forza, con le armi e le minacce, ma con gli unici mezzi benedetti dal Cielo e degni dell’uomo: l’incontro, il dialogo, le trattative pazienti, che si portano avanti pensando in particolare ai bambini e alle giovani generazioni». E non si dimentica anche quanto affermato dal Papa dinanzi alle autorità di Malta, nel viaggio del 2022: «Ci siamo abituati a pensare con la logica della guerra. Da qui comincia a soffiare il vento gelido della guerra, che anche stavolta è stato alimentato negli anni. Sì, la guerra si è preparata da tempo con grandi investimenti e commerci di armi». Sulla stessa scia a Marsiglia, nel settembre 2023, Francesco asseriva: «Con le armi si fa la guerra, non la pace, e con l’avidità di potere sempre si torna al passato, non si costruisce il futuro».

Attingendo alla storia e in particolare a quella dell’Europa che ha cercato di lasciarsi alle spalle divisioni, contrasti e guerre, causate da «nazionalismi esasperati» e «ideologie perniciose», Papa Francesco, meno di un anno fa, con i rappresentanti politici e civili del Lussemburgo condivideva la tristezza per il fatto che oggi nei Paesi del Vecchio Continente «gli investimenti che danno più reddito sono quelli delle fabbriche delle armi. È molto triste».

E se la remuneratività degli investimenti suscita tristezza, provoca invece sdegno il fatto che a investire siano le stesse nazioni che si fanno promulgatrici di appelli di pace. «La grande ipocrisia», l’aveva definita Papa Francesco in uno dei discorsi forse più significativi sul tema, quello a Bari durante l’Incontro dei vescovi del Mediterraneo nel 2020. È un «grave peccato di ipocrisia», quando, sottolineava, «nei convegni internazionali, nelle riunioni, tanti Paesi parlano di pace e poi vendono le armi ai Paesi che sono in guerra».

In quella stessa occasione Francesco richiamava l’insegnamento di Giovanni xxiii, il Papa autore della Pacem in terris: «La guerra, che orienta le risorse all’acquisto di armi e allo sforzo militare, distogliendole dalle funzioni vitali di una società, quali il sostegno alle famiglie, alla sanità e all’istruzione, è contraria alla ragione. In altre parole, essa è una follia, perché è folle distruggere case, ponti, fabbriche, ospedali, uccidere persone e annientare risorse anziché costruire relazioni umane ed economiche. È una pazzia alla quale non ci possiamo rassegnare: mai la guerra potrà essere scambiata per normalità o accettata come via ineluttabile per regolare divergenze e interessi contrapposti. Mai».

Parole, queste, attuali allora, attuali oggi e attuali per tutti gli anni a venire. 



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