Esterovestizione delle società: la suprema Corte di cassazione si esprime sulla natura elusiva del fenomeno

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L’“esterovestizione” societaria è un termine, di recente introduzione nel panorama internazionale- tributario, che viene utilizzato per indicare specifiche tecniche di pianificazione fiscale internazionale realizzate mediante la costituzione di una o più società in altro Stato estero (normalmente in un paradiso fiscale che non garantisce un adeguato scambio di informazioni), con il precipuo scopo di ottenere un indebito risparmio d’imposta che, come tale, è disapprovato dall’ordinamento giuridico domestico.

In ambito internazionale, il fenomeno dell’esterovestizione può essere qualificato come un pernicioso sistema evasivo che sottrae ingenti risorse al Fisco, distorcendo la concorrenza nei mercati e modificando, ingiustamente, la pressione fiscale tra i contribuenti che operano in un determinato contesto ad ampio respiro internazionale.

Più nello specifico, i Gruppi ad ampio respiro internazionale pongono in essere tecniche di pianificazione fiscale internazionale (c.d. aggressive tax planning), attuate mediante la costituzione di società o di stabili organizzazioni in un altro Stato a fiscalità privilegiata, con la chiara finalità di evadere od eludere i tributi nazionali dello Stato di cui sono residenti.

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La normativa di riferimento in subiecta materia, recentemente novellata dal D.Lgs. 209/2023, è l’articolo 73 Tuir, il quale prevede, dal 2024, che «Ai fini delle imposte sui redditi si considerano residenti le società e gli enti che per la maggior parte del periodo di imposta hanno nel territorio dello Stato la sede legale o la sede di direzione effettiva o la gestione ordinaria in via principale. Per sede di direzione effettiva si intende la continua e coordinata assunzione delle decisioni strategiche riguardanti la società o l’ente nel suo complesso”.  In merito:

  • la sede di direzione effettiva coincide con la continua e coordinata assunzione delle decisioni strategiche riguardanti la società o l’ente nel suo complesso (con contestuale recepimento del criterio di localizzazione della residenza fiscale adottato nella generalità delle convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni);
  • la gestione ordinaria è, invece, riferita al continuo e coordinato compimento degli atti della gestione corrente riguardanti la società o l’ente nel suo complesso (imponendo, quindi, una valutazione dell’effettivo radicamento della società, dell’ente o dell’associazione in un determinato territorio).

Di contro, sino al 31.12.2023, la residenza fiscale per gli enti diversi dalle persone fisiche (es. le società di persone, gli enti e gli atri soggetti passivi IRES, quali le società di capitali e i trust) era disciplinata dall’articolo 5, comma 3, lett. d), Tuir e dall’articolo 73, Tuir.

In merito, nel recente passato, le società o gli enti, compresi i trust, prima della recente riforma introdotta dal D.Lgs. 209/2023, erano considerati fiscalmente residenti in Italia quando, per la maggior parte del periodo d’imposta (183 giorni), avevano la sede legale o la sede dell’amministrazione o l’oggetto principale nel territorio dello Stato.

Di conseguenza, occorreva tenere in considerazione i 3 criteri sopra descritti, alternativi tra di loro, che consentivano di individuare compiutamente la residenza fiscale del soggetto passivo:

  • la sede legale;
  • la sede dell’amministrazione;
  • l’oggetto principale.

La sede dell’amministrazione di una società è stata da sempre stata considerata di fondamentale importanza, e andava nel luogo dove erano assunte le decisioni più importanti per l’impresa, ovvero da dove venivano definiti gli indirizzi strategici dell’azienda e dal quale, di conseguenza, venivano diramate le relative direttive operative.

La Corte di cassazione, nella famosa sentenza n. 3604/1984, ha sottolineato che per «sede effettiva» delle persone giuridiche è da intendersi il luogo ove hanno concreto svolgimento le attività amministrative e di direzione dell’ente e si convocano le assemblee, e cioè il luogo deputato, o stabilmente utilizzato, per l’accentramento, nei rapporti interni e con i terzi, degli organi e degli uffici societari in vista del compimento degli affari e della propulsione dell’attività dell’ente.

In ambito internazionale, a corollario della normativa domestica sopra illustrata, occorre invece fare riferimento all’articolo 4, paragrafo 3, del modello OCSE di convenzione internazionale contro le doppie imposizioni sui redditi.

In particolare, per evitare fenomeni di doppia imposizione, la residenza fiscale della persona giuridica sarà individuata sulla base di un accordo tra le autorità competenti (denominato mutual agreement), che dovrà tenere conto del luogo di direzione effettiva (place of effective management), del luogo di costituzione (the place where it is incorporated or otherwise constituted) e di ogni altro fattore rilevante (any other relevant factors).

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Nello specifico, quando si parla di sede di direzione effettiva occorre fare riferimento alla convenzione internazionale e relativo commentario e, in particolare all’articolo 4, del modello OCSE di convenzione contro le doppie imposizioni (punto 24.1), il quale sottolinea che per individuare la reale residenza fiscale di una società o di un ente occorre valutare vari fattori tra cui:

  • il luogo in cui si tengono abitualmente le riunioni del Consiglio di amministrazione o dell’organo equivalente della società o ente;
  • il luogo in cui l’amministratore delegato e i componenti dell’alta direzione svolgono abitualmente le loro attività;
  • il luogo ove si trova il quartier generale del Gruppo multinazionale;
  • quali sono le norme o le Leggi del Paese che disciplinano lo status giuridico della società;
  • dove sono tenute le sue scritture contabili.

Delineato, brevemente, l’ambito giuridico di riferimento in tema di residenza delle società, giova ricordare che la suprema Corte di cassazione, sezione V civile, nella sentenza n. 25917/2024, ha illustrato importanti principi sul tema della residenza e della libertà di stabilimento.

Facendo riferimento alla giurisprudenza della Corte di Giustizia UE (28/6/2007, C-73/06, Planzer Luxemburg Sarl, punti 60-61, richiamata dalla sentenza della Corte di cassazione 03/06/2021, n. 15424), il supremo giudice ha chiarito che la nozione di sede dell’attività economica “indica il luogo in cui vengono adottate le decisioni essenziali concernenti la direzione generale della società e in cui sono svolte le funzioni di amministrazione centrale di quest’ultima”.

Inoltre, la determinazione del luogo della sede dell’attività economica di una società implica “la presa in considerazione di un complesso di fattori, al primo posto dei quali figurano la sede statutaria, il luogo dell’amministrazione centrale, il luogo di riunione dei dirigenti societari e quello, abitualmente identico, in cui si adotta la politica generale di tale società. Possono essere presi in considerazione anche altri elementi, quali il domicilio dei principali dirigenti, il luogo di riunione delle assemblee generali, di tenuta dei documenti amministrativi e contabili e di svolgimento della maggior parte delle attività finanziarie, in particolare bancarie”.

Affinché si possa rientrare in una pratica abusiva occorre che il comportamento tenuto abbia come risultato l’ottenimento di un vantaggio fiscale, la cui concessione sarebbe contraria all’obiettivo perseguito dalle norme e, dall’altro, che da un insieme di elementi oggettivi risulti che lo scopo essenziale dell’operazione si limiti all’ottenimento di tale vantaggio fiscale (cfr. Corte giustizia 17/12/2015, causa C-419/14, WebMindLicenses Kft, punto 36).

In tal senso, è necessario accertare che lo scopo essenziale di un’operazione si limiti all’ottenimento di tale vantaggio fiscale: ciò perché quando il contribuente può scegliere tra due operazioni, non è obbligato a preferire quella che implica il pagamento di maggiori imposte, ma, al contrario, ha il diritto di scegliere la forma di conduzione degli affari che gli consenta di ridurre la sua contribuzione fiscale (Corte giustizia in causa C-6/16, punto 42; Cassazione n. 8297/2022).

Con specifico riferimento al fenomeno della localizzazione all’estero della residenza fiscale di una società, la Corte di giustizia (Corte giustizia 12/9/2006, in causa C 196/04, Cadbury Schweppes e Cadbury Schweppes Overseas) ha rilevato che, in tema di libertà di stabilimento, la circostanza che una società sia stata creata in uno Stato membro per fruire di una legislazione più vantaggiosa non costituisce per sé stessa un abuso di tale libertà; una misura nazionale che restringe la libertà di stabilimento è ammessa soltanto se concerne specificamente le costruzioni di puro artificio finalizzate ad eludere la normativa dello Stato membro interessato.

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L’obiettivo della libertà di stabilimento è, infatti, quello di permettere a un cittadino di uno Stato membro di creare uno stabilimento secondario in un altro Stato membro per esercitarvi le proprie attività e di partecipare così, in maniera stabile e continuativa, alla vita economica di uno Stato membro diverso dal proprio di origine e di trarne vantaggio.

La nozione di stabilimento implica, quindi, l’esercizio effettivo di un’attività economica per una durata di tempo indeterminata, mercé l’insediamento in pianta stabile in un altro Stato membro: presuppone, pertanto, un insediamento effettivo della società interessata nello Stato membro ospite e l’esercizio quivi di un’attività economica reale.

Di conseguenza, prosegue la suprema Corte, perché sia giustificata da motivi di lotta a pratiche abusive, una restrizione alla libertà di stabilimento deve avere lo scopo specifico di ostacolare comportamenti consistenti nel creare costruzioni puramente artificiose, prive di effettività economica e finalizzate ad eludere la normale imposta sugli utili generati da attività svolte sul territorio nazionale.

In buona sostanza, la contestazione di esterovestizione va necessariamente inquadrata nel campo dell’antielusione, presupponendo, quali connotazioni strutturali, l’aggiramento di principi dell’ordinamento tributario, l’indebito vantaggio fiscale e l’insussistenza di valide ragioni economiche (Cassazione n. 17849/2021).

Inoltre, i giudici di piazza Cavour hanno confermato la necessità di esperire anche un esame concreto dei criteri di collegamento previsti dall’articolo 73, comma 3, Tuir – ossia la sede legale, la sede dell’amministrazione, l’oggetto principale – a prescindere dal rilievo sul carattere abusivo della collocazione estera della società (Cassazione n. 23150/2022).

Quindi, occorre partire dalla ratio della normativa di riferimento, che indica chiaramente i criteri di collegamento, paritetici ed alternativi, tra i soggetti passivi (nella specie le società) dell’imposizione diretta ed il territorio dello Stato, la cui ricorrenza, per la maggior parte del periodo d’imposta, determina la residenza in Italia della contribuente e, con essa, l’assoggettamento alla potestà impositiva del fisco italiano.

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La rilevanza dei criteri di collegamento territoriali individuati dalla norma prescinde dall’eventuale alterazione, da parte della società contribuente, della realtà oggettiva, al fine di configurare una residenza diversa da quella effettiva, con il fine di sottrarsi all’imposizione dello Stato italiano e di entrare nell’area territoriale di imposizione di uno Stato diverso, il cui trattamento fiscale risulti più favorevole.

In estrema sintesi, la Corte rileva che i criteri in questione non sono finalizzati unicamente ad individuare fenomeni di natura elusiva, solitamente definiti di “esterovestizione”, caratterizzati in generale dall’artificiosa ed apparente distrazione del soggetto passivo del territorio nazionale, e quindi della residenza in Italia e della potestà impositiva nazionale, per attrarlo nell’area impositiva più conveniente di altro Stato.



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