L’epopea del Friuli terremotato l nascita del Coraf

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La ricostruzione dell’alto Friuli colpito dai terremoti del 1976 è un episodio esemplare – ma purtroppo sin qui mai davvero imitato – di applicazione di fatto ad una realtà sociale e politica (per di più in emergenza) del principio di sussidiarietà.

In tale quadro il Movimento Popolare e altre realtà di analoga ispirazione poterono dare con fluidità un contributo forte, tipico e per molti aspetti decisivo. Una serie di positive circostanze, che elenchiamo qui di seguito, aiuta a capire perché e come ciò fu possibile.

Dove iniziava la ricostruzione del Friuli squassato dai terremoti del 1976

In primo luogo perdurava nel Friuli di quegli anni (e ci auguriamo perduri ancora) una cultura pubblica, di evidente matrice cristiana, caratterizzata per un verso da un forte richiamo alla responsabilità e all’iniziativa personale, e per l’altro dalla fiducia nel buon risultato del mettersi lealmente a lavorare insieme. Non esistevano già allora della cooperative edilizie, ma c’era una notevole tradizione di cooperative agricole, latterie cooperative e in particolare latterie turnarie.

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In secondo luogo, di fronte alle distruzioni del terremoto, la gente partiva in genere dal presupposto che, senza restare fermi in attesa degli aiuti dello Stato o della Regione, ciascuno doveva innanzitutto prendere iniziativa di bessôl; ossia da sé solo. Intendiamo dire: non senza bisogno di aiuto, cosa che tra l’altro sarebbe stata impossibile, ma “di propria iniziativa”. E dunque assumendo e conservando durante tutto il processo il controllo della ricostruzione. In terzo luogo la Regione Friuli Venezia Giulia, a statuto speciale, aveva ampie competenze in materia urbanistica ed edilizia. In quarto luogo quella nel campo delle costruzioni era allora una competenza molto diffusa in Friuli, qualcosa insomma che, insieme all’agricoltura e all’allevamento faceva un po’ parte della cultura generale dei friulani, e inoltre molta dell’industria locale riguardava la casa e il suo arredamento. In quinto luogo il governo nazionale dell’epoca, presieduto da Aldo Moro, pressato da urgenze in sede nazionale, fu ben lieto di lasciare alla Regione Friuli Venezia Giulia ogni responsabilità per quanto concerneva la ricostruzione delle zone terremotate.

Furono queste le circostanze che senza dubbio giocarono a favore della rapidità e dell’efficienza della ricostruzione, e in tale quadro dell’accoglienza di iniziative di matrice tipicamente sussidiaria come quelle proposte dal Movimento Popolare.


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Migliaia di ragazzi di Cl al servizio delle famiglie terremotate

Il terremoto del 1976 colpì tre volte l’Alto Friuli, sconvolgendo 77 comuni di quell’area: la prima volta il 6 maggio, la seconda l’11 settembre e la terza il 15 settembre. La prima scossa causò 990 vittime, concentrate principalmente nei comuni di Gemona, Venzone, Trasaghis, Bordano, Forgaria, Majano, Osoppo e relative frazioni. Subito dopo il terremoto di maggio, fra le molte iniziative di aiuto alle comunità sinistrate si segnalò l’arrivo sul posto di centinaia di giovani di Comunione e Liberazione, principalmente dalla Lombardia e dal Friuli stesso, che si misero al servizio della popolazione e della Chiesa locale. Nel corso dell’estate si alternarono 2.500 volontari in turni bisettimanali.

I ragazzi e le ragazze di Cl si dedicavano soprattutto ad attività educative e ricreative per i bambini e le loro famiglie. Senza nemmeno averlo molto teorizzato, i ragazzi e le ragazze di Cl davano così un aiuto sostanziale alle famiglie che, assorbite dall’impegno della ricostruzione, non avevano modo di occuparsi dei loro figli minori, per i quali le macerie erano un interessante ma pericoloso campo da gioco. Le famiglie mostrarono di apprezzare vivamente la vicinanza e il sostegno di quei giorni, che li aiutarono a non cedere alla disperazione e a riscoprire con stupore un clima di solidarietà comunitaria che sembrava essere andato perduto coi processi di modernizzazione.

«Rimanemmo per 20 uomini sfiniti e soli, ai piedi della montagna che franava»

Anche dopo le scosse di settembre, quando gran parte della popolazione fu trasferita nelle località turistiche balneari di Lignano, Jesolo, Grado, ecc. la presenza e compagnia dei ciellini ai terremotati continuò: una parte dei volontari seguì le famiglie coinvolte nell’esodo, un’altra rimase sul posto. Si legge in una testimonianza apparsa su Litterae Communionis dell’ottobre 1977:

«La testimonianza più pura della verità della nostra esperienza è apparsa in maniera inequivocabile il 15 settembre 1976. Dopo le scosse di un’intensità e distruzione rilevanti, tutti (dico: tutti!) i volontari, extraparlamentari o umanitari, se ne andarono, e subito dopo avvenne il grande esodo della popolazione a Lignano e a Grado. Noi rimanemmo, non più per le 700 persone della borgata, ma per 20 uomini sfiniti e soli, ai quali offrivamo la nostra compagnia, con i quali mangiavamo, lavoravamo e ci facevamo coraggio, ai piedi della montagna che franava».

La presenza di volontari di CL continuò anche dopo la fase di emergenza per tutto il 1977: una dozzina di campi estivi con attività analoghe a quelle dell’anno prima furono condotti da 500 universitari, insegnanti e lavoratori fra il luglio e il settembre 1977.

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Il Movimento Popolare dà vita al Coraf

Conclusa la fase dell’emergenza, che era stat coordinata da un Commissario del governo, l’on. Giuseppe Zamberletti, il governo fece una scelta rivelatasi decisiva: quella di non ingerirsi nella ricostruzione, ma di restituire alla Regione e ai terremotati ogni loro responsabilità, competenza e potere al riguardo. Questo è ciò che garantì il successo della ricostruzione, e che non è stato mai più fatto successivamente. È in questo contesto che nasce il Coraf, pensato nell’ambito del Movimento Popolare e fondato l’8 giugno 1976 a Udine soprattutto per iniziativa dell’ingegner Diego Meroni e dei geometri Vico Festorazzi, Vanni Meschini e Daniele Milocco.

Meroni e Festorazzi sono lombardi e Daniele Milocco è un geometra friulano che con la Caritas diocesana di Udine coordinava i primi aiuti di emergenza di provenienza ecclesiale. Collabora con loro sin dall’inizio Robi Ronza, già direttore della rivista Cooperare del Consorzio Casa di Milano, che aveva competenza nel campo della cooperazione edilizia. La fondazione del consorzio, così come quella della prima cooperativa che entrerà a farne parte, ha luogo presso la Domus Mariae di Tarcento, dove era già presente don Antonio Villa, sacerdote milanese che rimarrà a Tarcento per tutta la vita, avviando l’attività scolastica che poi diverrà la Scuola Nuova.


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Un consorzio di 45 cooperative per rimettere in piedi il Friuli

Al Coraf aderiranno 45 cooperative con oltre 2.200 soci che saranno protagoniste della ricostruzione del Friuli terremotato secondo criteri ben precisi, esposti nello statuto. All’art. 3 dello stesso si legge:

«L’Ente opera nelle zone del Friuli colpite dagli eventi tellurici del 6 maggio 1976. Esso intende porsi come strumento per una ricostruzione del tessuto sociale ed economico delle singole comunità avendo di mira: a) la salvaguardia dei connotati storici e culturali dell’ambiente e dell’identità delle popolazioni ivi insediate; b) la valorizzazione ed affermazione dell’autogestione delle popolazioni sinistrate nelle scelte e nella ricostruzione del proprio ambiente abitativo e dei servizi sociali. L’Ente ispira la propria attività nel quadro generale dell’opera di ricostruzione del Friuli ed in rispondenza ai valori morali e culturali della tradizione cristiana delle genti friulane».

Questi contenuti si riproporranno negli statuti delle cooperative aderenti, in tutti i quali compare, come loro scopo, «l’assistenza alla popolazione sinistrata e la ricostruzione dell’ambiente locale distrutto nel rispetto delle proprie tradizioni culturali».

Il primo convegno del Coraf si svolge nel dicembre 1976, quando le cooperative aderenti sono già 27. I dirigenti del Coraf collaboreranno poi costantemente con gli amministratori locali e coi legislatori regionali perché la legislazione della ricostruzione e la prassi in materia continuassero all’insegna della sussidiarietà. A livello nazionale infatti lo Stato aveva demandato alla Regione Friuli Venezia Giulia l’attività della ricostruzione. Su tale base la Regione approvò la L.R. 30/77 (interventi di riparazione con adeguamento antisismico su edifici che si potevano riparare) e la L.R. 63/77 (interventi di ricostruzione per edifici distrutti o non recuperabili) che demandava ai comuni l’approvazione dei progetti e l’erogazione dei fondi.

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Non c’è ricostruzione materiale senza ricostruzione di un popolo

Le preoccupazioni del Coraf sono bene espresse in un articolo apparso su Litterae Communionis del maggio 1979, successivo al III convegno del Coraf, dove si legge:

«I gruppi di volontari di CL che hanno condiviso i disagi nelle tendopoli come pure i responsabili di MP, tesi a mettere in atto delle realtà di aggregazione e di operatività civile, erano mossi fin dall’inizio, oltre che dal desiderio di portare un aiuto immediato e concreto, anche dal convincimento che la ricostruzione edilizia dovesse innanzitutto essere ricostituzione della identità e della cultura di un popolo e che solo da lì poteva conseguire anche la ricostruzione materiale. La storia e la cultura friulana e la tradizione di gruppi e di realtà locali di aggregazione diedero luogo ad un reale incontro e condivisione intorno a questa prospettiva che si andò precisando sia come discorso teorico, sia come puntuale, seppure faticoso e progressivo intervento nelle leggi e nei programmi che presiedono alla ricostruzione».

Per non disperdere la tradizione occorreva prendersi cura dei suoi aspetti materiali nel dettaglio:

«Ciò implicava il restauro o addirittura la ricostruzione non solo degli edifici e dei centri storici più significativi e monumentali della regione ma soprattutto la salvaguardia e il ripristino dell’edilizia minore e soprattutto del sistema globale degli insediamenti nel territorio, allo scopo di evitare il formarsi di nuove concentrazioni artificiali destinate ad essere vere e proprie periferie urbane: era necessario cioè che il tradizionale rapporto dei friulani col proprio territorio continuasse nella sua tradizionale complessità, fatta di lavoro agricolo, misto alle nuove attività nei settori industriale e terziario, senza che nessuno di essi prendesse il sopravvento».


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Tra le macerie mette radici il principio di sussidiarietà

Tutto ciò infine non sarebbe bastato senza un lavoro culturale:

«Ma tutta questa attenzione ai programmi non avrebbe alcun valore se non fosse accompagnata da un’altra e più profonda preoccupazione, purtroppo non sempre e non da tutti condivisa, che non bastano i programmi per quanto buoni ed onestamente gestiti ma occorre che essi siano l’occasione e l’aiuto al crescere di quella comunità di intuizioni e progetti, che sola permette ad un popolo di poter rinascere. Non si tratta perciò di approntare un buon progetto globale di cui il popolo friulano è destinatario, ma di mettere in atto tutte le energie perché questo popolo ne diventi il protagonista in prima persona: non quindi l’assistito dallo Stato ma il promotore».

Non è chiamata col suo nome, ma il riferimento alla sussidiarietà è evidente.

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Il III convegno del Coraf si tenne a Gemona, epicentro del sisma, il 19 marzo 1979 ed ebbe come titolo “Per la rinascita del Friuli autogestire la ricostruzione”. Il relatore principale fu Santino Langè e la seconda relazione fu tenuta da Diego Meroni. Al dibattito intervennero assessori regionali, i sindaci di Gemona e Nimis e presidenti e soci delle cooperative di ricostruzione.

L’attività del Coraf negli anni della ricostruzione fu quella di assistere i soci delle cooperative relativamente alla legislazione specifica per le domande da presentare e per altri adempimenti. Parte integrante di questa assistenza è stato il bollettino CORAF Notizie, che veniva inviato a tutti i soci delle cooperative. Tutti i numeri, a partire da quello del mese di dicembre 1978, furono interamente curati da Robi Ronza.

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