Victoria Benedictsson l’incompresa: una scrittrice tra gli scrittori

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«Con lo pseudonimo di Ernst Ahlgren esordisce un nuovo autore», scrive un quotidiano svedese il 25 luglio 1883. Quell’autore viene immediatamente acclamato come uno degli astri nascenti della nuova lettura scandinava, che vuole imporre uno sguardo più radicale sul mondo e, in fondo, un nuovo mondo.

Ernst Ahlgren in realtà è una donna. È la moglie di un funzionario postale che vive in un arretrato paesino di provincia occupandosi dei figli del marito e di sua figlia, che non ama, della biancheria da stirare e del cucito, dell’etichetta e dei pettegolezzi. Ma scrive, e desidera più di ogni altra cosa parlare di filosofia e letteratura fino a notte fonda, bevendo vino e fumando sigari. Quella donna si chiama Victoria Benedictsson.

A raccontarci di lei è l’autrice svedese Elisabeth Åsbrink, nel romanzo “Il mio grande, bellissimo odio”, appena pubblicato da Iperborea nell’eccellente traduzione di Katia De Marco. Un romanzo, questo di Åsbrink, che scuote e interroga, perché la vita dell’autrice morta suicida giovanissima è una formidabile lente d’ingrandimento per mettere a fuoco come, mentre le società avanzano e le battaglie per i diritti delle donne guadagnano terreno, a opporre resistenza sia la cultura.

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La Scandinavia di Benedictsson è quella delle grandi lotte sulla morale che mettono in discussione i fondamenti stessi della società, primo tra tutti il matrimonio. Il dibattito si era aperto nel 1879 con Ibsen e il suo “Casa di bambola”.

Le prime dello spettacolo si erano tenute tra Natale e Capodanno, e in molte case della buona borghesia quell’anno gli inviti a cena includevano una clausola: gli ospiti sono pregati di non parlare di “Casa di bambola” per non rovinare l’atmosfera. Ibsen diventa allora l’araldo delle nuove idee, colui che afferma la libertà dell’individuo di seguire la propria strada anche contro le regole borghesi. Il suo alleato è il critico danese Georg Brandes che vuole liberare l’intera società dai pregiudizi e dall’ignoranza che la governano, e in via definitiva dall’influsso della religione.

In Svezia August Stridberg pubblica la raccolta di racconti “Sposarsi” e dà un colpo fatale alla morale rivendicando tutti i diritti delle donne, a partire da quelli di vivere liberamente la sessualità. Inutile dire che il libro sarà vietato e diventerà un best-seller.

In questo contesto, dove gli uomini lottano per cancellare le morali borghesi, a favore della libertà individuale e quindi anche femminile, che bisogno ha Victoria Benedictsson di scegliersi uno pseudonimo maschile? Nella Svezia di fine Ottocento non è certo proibito alle donne né scrivere né pubblicare, ma non è quello che le interessa. Lei vuole essere presa sul serio, in letteratura. Non vuole essere elogiata come scrittrice di romanzetti per signore. Vuole che le sue pagine vengano considerate come accade ai colleghi uomini. Vuole chiacchierare di scienza e filosofia, con intelligenza e ambizione, vuole amicizie maschili.

Per questo è necessario uno pseudonimo che inganni il genere. Perché nonostante tutte le loro battaglie, quel gruppo di intellettuali da cui lei aspira a essere vista, quegli intellettuali che si battono per i diritti delle donne, in fondo si aspettano una sola cosa dalle donne. No, non l’intelligenza, tantomeno la scrittura, ma che siano femminili, amabili, ben curate. Ci penserà Georg Brandes a spiegarglielo.

Lo pseudonimo maschile dunque. Per aprire un portale e trovarsi dall’altra parte. Trasformata in un uomo. Che, nelle intenzioni di Victoria Benedictsson, significa semplicemente poter scrivere da fuorilegge, ignorando le convenzioni, mandando all’aria le regole borghesi. Questo sa fare, ma il suo genere la inchioda: il mondo intellettuale finirebbe per non prenderla sul serio, peggio ancora per deriderla. Benvenuto Ernst Ahlgren dunque. Quanti problemi, maldicenze, rivalità ci si può risparmiare con uno pseudonimo – anche oggi forse, dove quasi mai l’opera delle scrittrici è giudicata con gli stessi strumenti critici usati per gli scrittori.

Ma cosa accade a Victoria Benedictsson diventata Ernst Ahlgren? La scrittrice incontra il critico influente, lei gli lancerà la sfida, lui la raccoglierà. Georg Brandes presta poca attenzione all’opera di Benedictsson, ma va da lei tutte le sere. Sono entrambi, l’uno per l’altro, nutrimento letterario. Qui Åsbrink mostra uno scatto imprevisto della storia.

Tra i due, è Benedictsson a tenere in massima considerazione l’opera, più della vita. Non il critico, nonostante lui pensi il contrario. Per Georg Brandes, Victoria è materia d’autobiografia, una delle molte donne che seduce e abbandona, a cui ama raccontare delle sue amanti e delle ripicche della moglie, mentre imperterrito scrive i suoi saggi sulla loro libertà, dove loro non entrano mai. Benedictsson capisce rapidamente che Brandes non sarà mai l’amico o il mentore che ha sperato, non è in grado di stare con lei dentro la letteratura, lui la vuole più femminile, con la frangia e i capelli ben acconciati. A lui non interessa l’individuo, ma la donna.

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E lei gli dà quello che cerca, va a grandi passi verso il dolore, si innamora senza riserve, ma tutto questo perché è l’opera che interessa a Benedictsson. Lui sale le scale della sua camera d’albergo, lei prende nota. Sta trascrivendo la verità? Poco importa, dice Åsbrink, si sta facendo letteratura. La relazione con Brandes, il suo innamoramento, è un modo per Benedictsson per affinare la propria conoscenza dell’umano, il vero sentire.

Ritornano in mente i versi di Anna Achmatova, che ugualmente non risparmiava il proprio coinvolgimento nella vita, e in quel coinvolgimento stava da poeta: “non scordare la tua cara amica/nell’Eden che hai creato per i suoi occhi,/per me spaccio una merce rarissima/e vendo il tuo tenerissimo amore.”

Così Achamatova, Benedectisson e Åsbrink, sembrano dirci la stessa cosa: più delle battaglie e dei sanguinosi scontri tra critici conta la letteratura, ed è sulla pagina che si misura la libertà e il coraggio di una scrittrice, di uno scrittore.



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