questionegiustizia.it, 8 marzo 2025
La norma, contenuta nel cosiddetto “ddl Sicurezza”, che rende non più obbligatorio ma facoltativo il differimento della pena nei confronti di donne incinte o con figli fino a un anno di età, si potrebbe studiare nelle aule scolastiche quale esempio di quell’uso distorto dello strumento penale al quale sempre più siamo stati abituati negli ultimi anni e di cui l’attuale governo è maestro indiscusso. In essa vi sono tutti gli ingredienti della degenerazione giuridica e culturale: la creazione di un nemico inesistente (le donne che si procurerebbero gravidanze continue per farla franca), il pugno di ferro e l’intolleranza zero verso piccoli reati di strada (il borseggio), il carcere sbandierato come unica prospettiva punitiva (perfino il codice Rocco è indicato come permissivista), la falsa retorica della certezza della pena che mancherebbe e va ripristinata (il differimento di qualche mese dell’esecuzione non significa assenza di pena ma pena rinviata), l’odiosa stigmatizzazione di una categoria etnica (le donne rom).
È una norma che non stravolgerà il volto del carcere, che non inciderà su grandi numeri. Ma il valore simbolico che intende avere la rende un tassello centrale del nefasto programma governativo incamminato fin dal principio – con l’introduzione del reato di rave party, avvenuta in occasione del primo consiglio dei ministri in assoluto – sulla strada della degenerazione della civiltà giuridica del nostro Paese. Una norma che mostra plasticamente la cultura della donna propria delle forze di governo, ben espressa nel marzo 2023 dalla proposta di Edmondo Cirielli, senatore di Fratelli d’Italia e autore anche di una proposta di legge costituzionale per stravolgere l’art. 27, che alle donne condannate venga tolta la potestà sui figli. Fu in quella occasione che Grazia Zuffa – instancabile studiosa e attivista per i diritti di tante minoranze, capace di guardare con incisività al ripensamento del carcere proprio dall’ottica della differenza femminile, che ci ha lasciati improvvisamente lo scorso febbraio – chiamò all’azione tante donne indignate da tale provocazione e diede vita alla campagna “Madri fuori”, per la dignità e per i diritti delle donne condannate e dei loro figli e figlie. Una campagna alla quale tante esponenti e organizzazioni della società civile hanno aderito e che è stata rilanciata con forza in occasione del disegno di legge governativo sulla sicurezza.
Sono circa 4.000 i figli di donne attualmente detenute. Quasi inesistenti gli strumenti normativi nazionali e internazionali a loro protezione (solo nell’aprile del 2018 il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa ha adottato la Raccomandazione 2018(5) sui figli di genitori detenuti, offrendo per la prima volta una disposizione di soft law specifica). Di questi, 14 bambini vivono in cella con le loro madri. Nonostante il legislatore sia tornato più volte sull’argomento, non si è riusciti a far sì che i bambini non entrassero in carcere. Il punto è evidente: non è per legge che si può risolvere il problema, se non con una legge volta meramente ad allocare risorse. Servono strutture là dove troppo spesso le donne coinvolte non hanno un domicilio considerato adeguato a ripristinare la convivenza della madre col bambino. Va utilizzata maggiormente la misura della detenzione domiciliare speciale, introdotta nel 2001 proprio per le detenute madri. Tali strutture si chiamano case famiglia protette e la proposta di legge che le finanziava (la cosiddetta legge Siani, poi presa in carico da Serracchiani) fu affossata nel marzo 2023 da assurdi emendamenti leghisti.
Ma le donne non sono solamente madri. Tanti sono i bisogni che presentano all’interno del contesto detentivo e che andrebbero affrontati con maggiore attenzione. Di carcere, in generale, si tende a parlare poco e male. Il carcere è un luogo dimenticato. Figuriamoci quanto possa essere dimenticata quella minoranza nella minoranza costituita dalle donne detenute.
Al 28 febbraio 2025 erano 2.729 le donne presenti nelle carceri italiane, pari al 4,4% della popolazione reclusa complessiva, una percentuale sostanzialmente stabile nei decenni. Una nettissima minoranza. Se tuttavia andiamo a guardare la percentuale delle denunce che riguardano donne, vediamo che essa supera il 18% delle denunce totali. Ancora una netta minoranza, ma decisamente più alta di quella delle donne che troviamo in detenzione. Questi numeri pongono due domande, la prima dalla risposta relativamente facile mentre la seconda ben più ardua. La prima è quella che si interroga sul perché il carcere sia utilizzato così tanto meno per le donne che per gli uomini. Lo scarto tra la percentuale delle denunce e quella delle carcerazioni è infatti notevole. La risposta va rintracciata in vari fattori: la tendenza delle donne a commettere reati meno gravi rispetto agli uomini, come le statistiche sulla lunghezza delle pene comminate ci mostrano, per la quale accade che una parte delle denunce non abbiano seguito, che le donne permangano tendenzialmente in carcere meno degli uomini, che accedano più facilmente ad alternative alla detenzione; le specifiche norme esistenti a tutela del rapporto tra detenute madri e figli minori; il maggior tasso di fiducia da parte della magistratura nei confronti delle donne, la cui pericolosità sociale è valutata quale inferiore e per le quali, anche a parità di situazione giuridica, si è maggiormente disposti a concedere una misura esterna.
Ma è la seconda domanda che pone le più grandi difficoltà e che non ha ancora trovato una risposta soddisfacente nella storia della riflessione. È la domanda sul perché le donne delinquano così tanto meno degli uomini. Anche guardando infatti alla percentuale delle denunce, ben superiore a quella delle presenze in carcere, troviamo comunque uno scarto notevolissimo con il contesto maschile. Nessuna delle risposte tradizionali a questa domanda – a partire da quella lombrosiana fondata sull’idea di un’inferiorità biologica e intellettuale della donna, fino alle letture emancipazioniste della criminalità femminile che ne ravvisano il minor impatto nel ruolo famigliare e sociale ancora attribuito alla donna – è in grado da sola di rendere conto davvero della questione. Una questione che probabilmente necessita di un’interpretazione sfaccettata e che è capace di raccontarci molte cose non solo sul carcere e sulla giustizia ma sulle nostre società nel loro complesso.
Molti dei problemi che investono le donne detenute sono una paradossale e diretta conseguenza della loro scarsità numerica, la quale determina una minore attenzione complessiva del sistema. Il tema dell’alloggio è il primo che andrebbe affrontato, fosse solo per la semplicità della sua possibile soluzione. Una semplicità che ci mostra in maniera paradigmatica tutta l’immobilità del sistema penitenziario.
In Italia esistono attualmente soltanto tre istituti di pena interamente femminili (erano quattro fino a quando il carcere di Pozzuoli non fu chiuso a seguito del terremoto nella primavera 2024). Gli istituti di Roma Rebibbia (il più grande carcere femminile in Europa), di Venezia Giudecca e di Trani recludono oggi complessivamente 533 donne, ovvero meno di un quinto delle donne complessivamente detenute nel paese. La grande maggioranza di loro vive in sezioni femminili ospitate all’interno di carceri a prevalenza maschile. Sezioni che, per il sacrosanto dritto alla territorialità della pena, sarebbe sconsiderato chiudere o accorpare tra loro. Accade dunque che tali sezioni, circa 45 nel complesso, si presentino spesso come piccole o piccolissime, arrivando a ospitare anche tre, quattro, sei donne. E accade che le energie, le risorse, le attenzioni della direzione tendano a concentrarsi verso la parte maschile dell’istituto, enormemente più numerosa, precludendo l’organizzazione di attività significative per queste donne che vengono lasciate in una condizione di sostanziale abbandono. La parte maschile della detenzione tende a fagocitare le risorse disponibili, in termini di risorse economiche, di operatori penitenziari, di volontariato.
La soluzione sarebbe banale. E, nella sua banalità, rende vivida tutta l’insensatezza del sistema penitenziario. Basterebbe infatti permettere a uomini e donne detenute di frequentare attività congiunte durante il giorno per risolvere il problema dello stato di abbandono nel quale troppo spesso versano le sezioni penitenziarie femminili. Se tra i principi fondamentali delle Regole Penitenziarie Europee del Consiglio d’Europa troviamo quello secondo il quale “La vita in carcere deve essere il più vicino possibile agli aspetti positivi della vita nella società libera”, appare davvero anacronistica una separazione tra uomini e donne che non si riscontra più in alcun altro ambito sociale.
Più volte Antigone ha avanzato tale ovvia proposta e più volte si è sentita riconoscere la sua sensatezza. Ma niente è tuttavia cambiato nelle disposizioni amministrative. Da molti anni Antigone chiede l’istituzione, all’interno del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, di un ufficio interamente dedicato alla gestione della detenzione femminile e diretto da persone esperte in politiche di genere. Un ufficio del genere potrebbe dare seguito a cambiamenti concreti nella vita delle donne in carcere. È la precondizione perché si mettano in atto gli altri interventi necessari a garantire pienamente i diritti delle donne detenute, tra cui quello appena menzionato. La detenzione femminile necessita di un’attenzione specifica, affinché non se ne disperda la considerazione nella detenzione maschile, statisticamente ben più rilevante. Ma essa necessita anche di una competenza specifica, che garantisca la capacità di gestire le specificità che caratterizzano la reclusione delle donne. Attenzione e competenza segnatamente dedicate alle donne in carcere: è da qui che bisogna partire se si vuole ipotizzare una strada riformatrice tesa a superare quegli ostacoli nella fruizione dei diritti che le donne detenute si trovano spesso ad affrontare.
Le specificità che caratterizzano la detenzione femminile non riguardano, si badi bene, caratteristiche soggettive interiori che differenzierebbero le esigenze degli uomini e quelle delle donne. Non deve certo rientrare dalla finestra, se mai è stata davvero superata, quella concezione, così presente nei secoli passati, per la quale le donne non dovrebbero essere punite quanto piuttosto poste sotto tutela, protette da loro stesse e dalle proprie debolezze. Non è certamente lungo queste coordinate che bisogna guardare alla specificità della detenzione femminile. Piuttosto, al di là di oggettive differenze biologiche, per molti aspetti l’attenzione e la competenza specifiche che dovrebbero gestire la detenzione femminile dovrebbero servire non ad allontanare bensì ad avvicinare la detenzione delle donne a quella degli uomini, oggi maggiormente garantita nel rispetto di alcuni diritti. Vanno rimossi gli ostacoli che le donne incontrano durante la detenzione e che sono spesso maggiori di quelli fronteggiati dagli uomini, anche a causa della maggiore stigmatizzazione subita dalle donne detenute rispetto agli uomini. A questo deve servire una gestione specifica della detenzione femminile.
Ma non solo. Una simile gestione dovrebbe avere la lungimiranza di interpretare la detenzione delle donne come un modello sul quale sperimentare politiche di minimizzazione carceraria che possano in seguito estendersi all’intero ambito penitenziario. La composizione sociale e giuridica delle donne che incrociano il sistema della giustizia penale, caratterizzata da un’estrema marginalità sociale e da una scarsa pericolosità sociale e penitenziaria, può aprire la strada tanto a ipotesi di decarcerizzazione quanto a modelli di custodia il più possibile aperti al territorio, che potrebbero auspicabilmente in seguito arrivare a imporsi come una prospettiva generale. Si può e si dovrebbe sperimentare un’ampia applicazione di pene e misure alternative, che riduca drasticamente lo spazio del penitenziario senza andarsi a sommare a esso come quasi sempre è accaduto nella storia italiana. All’interno del carcere si possono e si dovrebbero sperimentare circuiti poco contenitivi, una riduzione dell’approccio disciplinare che preveda quantomeno il superamento della sanzione dell’isolamento che, come ormai ampiamente dimostrato dalla letteratura scientifica, ha ripercussioni dannose e potenzialmente permanenti sul corpo e la mente delle persone.
Tutto questo potrebbe e dovrebbe prendere le mosse dal piccolo laboratorio di indagine e sperimentazione che la detenzione delle donne rappresenta. E da qui – per quanto il momento storico e politico non la renda certo una prospettiva probabile – dovrebbe avere la capacità di andare oltre e investire il modello di esecuzione penale nel suo complesso. La detenzione femminile, oggi trascurata come parte residuale del carcere, potrebbe trasformarsi nel grimaldello capace di aprire a una concezione del carcere ben più in linea con il dettato costituzionale.
*Coordinatrice nazionale dell’Associazione Antigone
(NdR). L’8 marzo è una giornata di lotta e la nostra Rivista, quest’anno, intende dare risalto a quella delle donne in carcere. Susanna Marietti ci ricorda che la rivendicazione femminile (e femminista) non è una prospettiva solo di genere, ma una scelta necessaria per migliorare la società, la città. Anche quella particolare città che è il carcere. La pubblicazione del brano è accompagnata da una fotografia scattata da Sara Cocchi (nostra autrice e Segretaria di Redazione) a un collage comparso sui di muri di Firenze. La raccontiamo con le parole di Sara: “L’immagine mi ha subito incuriosito. Parte da materiali ordinari (i ritagli di giornale), ma mi pare veicoli un’immagine positiva di femminilità, forte e straordinaria (come recita la scritta in evidenza). Mostra come ogni donna – in fondo ogni essere umano – è il risultato di un mosaico di fattori, di caratteristiche, di esperienze, anche di contraddizioni se vogliamo, che ne fanno l’unicità, dunque la straordinarietà. È questa consapevolezza di unicità che permette di superare tutti gli stereotipi”
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