La morte ovvero il pranzo della domenica di Balivo/Dammacco

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Kantor diceva che il Teatro parla sempre della morte. E non perché si rappresentino delitti, tragedie o pietose morti, ma per il fatto che ci mette in comunione con il senso della nostra finitezza. Dal buio sorgono le immagini e i personaggi che, dopo un flebile soffio di vento, ritornano nell’ombra. Come scriveva Shakespeare siamo tutti attori che si pavoneggiano e si agitano sul palcoscenico per il tempo a noi assegnato, e poi nulla più s’ode. Vita e teatro si rispecchiano. Non è finzione, è menzogna che si fa verità di carne. 

Serena Balivo in scena. Foto di Angelo Maggio.

La morte ovvero il pranzo della domenica, di Mariano Dammacco, interpretato superbamente da Serena Balivo, ci fa sentire fin da subito la presenza della Signora in nero. Quelle bottiglie sul fondo del tavolo fanno tanto pensare a quelle di Morandi, così ordinarie, vuote, abbandonate. E quando compare lei, con la sigaretta, seduta al tavolo con gli occhi fissi, emerge anche la figura di uno dei giocatori di carte di Cezanne. Su quel tavolo appaiono una selva di nature morte. Tutto in quell’immagine, così semplice e così ordinaria, ci riporta alla stasi della tomba. 

La donna seduta, non più giovane, ci racconta del suo pranzo domenicale, appuntamento che non vuole perdere per nulla al mondo. Un pranzo con i genitori ultranovantenni di cui ci viene raccontato con dovizia di particolari tutto il menù. È una stazione di un viaggio verso la morte. I vecchi si stanno preparando al funerale (lo sognano potremmo dire), mentre la figlia cerca di esorcizzare il momento. È raggelante, benché in alcuni momenti il racconto ti obblighi a sorridere. 

Quei genitori sono i nostri. Li possiamo riconoscere. Io per esempio sono stato quasi costretto a vedere in loro mia madre, le sue polpette divine, il suo sentirsi in dovere di metterti al corrente di tutte le tragedie di cronaca e della situazione geopolitica mondiale. È noiosa, a volte, ma cerchi di sopportare perché sai che un giorno quei discorsi ti mancheranno. E poi le fissazioni, l’ordine maniacale, il senso del decoro, tutti ci ricorda genitori comuni, condivisibili, e per questo quell’ansia di morte che pervade la scena è così opprimente che se non ci fossero le risate sarebbe insopportabile. Veniamo nostro malgrado catapultati in una  terra oltre il confine del piacere, dove il godimento è inestricabilmente connesso con il dolore.

La morte ovvero il pranzo della domenica, rende vivi e concreti i nostri timori. Ha solidificato molte delle mie paure rispetto alla mia anziana madre. Quella sensazione orribile, riassunta da Serena Balivo nell’immagine dei saluti dalla finestra, che ti attaglia talvolta nel pensare: “forse è l’ultima volta che ci vediamo”. Ridere di queste sensazioni è il più grande risultato del teatro, ribaltare l’angoscia nel suo contrario, vincere la paura della morte confrontandosi con lei faccia a faccia. 

Serena Balivo in scena. Foto di Angelo Maggio.

Serena Balivo in scena. Foto di Angelo Maggio.

Serena Balivo ha un controllo minuzioso delle sue capacità espressive. Riesce a padroneggiare una gestualità vivace, colorita, intensa e difficilissima, in quei movimenti a scatto, come di marionetta, in quei repentini congelamenti dell’azione, non come se ci fosse un ripensamento, ma come se nel frattempo si sia riscritta la programmazione, nelle routine e i loop, come leitmotiv e frasi poetiche, che si stagliano in contrapposizione alla narrazione. Il dosaggio sapiente dei toni e delle espressioni rende il racconto avvincente anche se in fondo si racconta niente di diverso di un semplice pranzo domenicale con il suo arrosto con le patate, le paste con l’amaro e il caffè a chiudere.

Un pranzo della domenica qualunque, comune ma che possiede qualcosa di primigenio. E non solo perché il legame tra il cibo e i morti sia stretto ancor oggi, ma in quanto il timore di non aver fatto “tutto per bene”, come dice il padre della donna, ci accomuna ai nostri avi. Il non essere ricordati, non aver meritato questa vita agli occhi di chi rimane, forse è paura ancor più forte della morte stessa. E questo pranzo della domenica ce lo ricorda ossessivamente.

Mariano Dammacco e Serena Balivo sono riusciti a creare un lavoro che coniuga la leggerezza della serenità con il panico generato dal timore della perdita. Come spettatori ci si sente dilacerati dal piacere e dall’orrore. Solo il Teatro con la maiuscola, quello evocato all’inizio di queste riflessioni, può osare tanto. È raro incontrarlo ma quando succede provi la strana sensazione di una gioia mista a inquietudine. Ma questo è uno dei suoi compiti. Come diceva Artaud, il teatro ha il dovere ricordarci che il cielo può caderci in testa ogni minuto. 

visto a Torino, Cubo Teatro | 17 gennaio 2025

Uno spettacolo con Serena Balivo

Ideazione, drammaturgia e regia Mariano Dammacco

Musiche originali Marcello Gori

Consulenza spazio e luci Vincent Longuemare

Oggetti di scena Andrea Bulgarelli / Falegnameria Scheggia

Foto di scena Angelo Maggio

Ufficio stampa Maddalena Peluso

Produzione Compagnia Diaghilev

Con il sostegno di Spazio Franco (Palermo) e di Casa della Cultura Italo Calvino (Calderara di Reno) 



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