La riserva delle criptovalute di Trump non piace nemmeno alla comunità delle criptovalute

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La scorsa settimana Donald Trump ha firmato un ordine esecutivo per creare la «Strategic Bitcoin Reserve», una riserva nazionale di bitcoin simile a quella che molte nazioni hanno per risorse di importanza strategica, come l’oro o il petrolio. Si tratta di una promessa che Trump aveva fatto in campagna elettorale, lo scorso luglio, quando nel corso di una conferenza dedicata alla criptovaluta promise anche di rendere gli Stati Uniti «la capitale cripto del mondo».

Grazie anche ad annunci come questo, la vittoria di Trump alle elezioni presidenziali dello scorso novembre provocò un forte aumento delle quotazioni in tutto il settore, e i primi di dicembre un bitcoin superò i 100 mila dollari di valore. Alla notizia della effettiva creazione della riserva nazionale di bitcoin però le cose sono andate al contrario: il valore della criptovaluta è sceso da 91 mila dollari a 85 mila, continuando a scendere nei giorni successivi.

L’ordine esecutivo di Trump è stato infatti giudicato fin troppo moderato e timido nelle intenzioni, in particolare perché questa riserva sarà composta da bitcoin che sono «in possesso del dipartimento del Tesoro, ottenuti nell’ambito di procedimenti penali o civili di confisca di beni». La decisione di utilizzare bitcoin già di proprietà degli Stati Uniti è stata difesa dall’imprenditore David Sacks, consulente di Trump per le intelligenze artificiali e le criptovalute, che ha sottolineato come questi bitcoin non saranno un costo per il paese. L’ordine esecutivo prevede l’acquisto di ulteriori bitcoin solo tramite «strategie che abbiano un impatto neutrale sul budget (…), a condizione che non comportino costi aggiuntivi per i contribuenti americani».

Per capire la delusione di una parte del settore occorre concentrarsi sulla differenza tra riserva (reserve) e scorta (stockpile), due termini che ricorrono spesso nell’ordine esecutivo ma non hanno lo stesso significato. Nel primo caso, uno stato si impegna a investire attivamente per acquistare un bene considerato di importanza strategica, mentre nel secondo caso si limita a conservare i beni di cui è già in possesso. Nonostante il nome “Strategic Bitcoin Reserve”, l’ordine esecutivo sembra di fatto descrivere una scorta (stockpile) nazionale di bitcoin confiscati. Secondo il giornalista del New York Times David Yaffe-Bellany, la decisione di non acquistarne di nuovi è stata presa anche per evitare di dover giustificare l’utilizzo di fondi pubblici, il cui impiego richiederebbe l’approvazione del Congresso.

Un altro elemento di critica riguarda l’inclusione di criptovalute diverse dai bitcoin, alle quali è dedicata una “scorta” chiamata «U.S. Digital Asset Stockpile» (in questo caso si usa proprio la parola stockpile). Il documento non precisa quali criptovalute saranno incluse in questa iniziativa, ma nei giorni successivi alla firma Trump ha pubblicato un post in cui citava delle criptovalute in particolare (Ether, XRP, Solana e Cardano), che nelle ore successive hanno registrato grandi aumenti di valore. Molti analisti e investitori si sono chiesti con quale criterio fossero state scelte, non potendo escludere che ci fosse un accordo tra Trump e le persone che hanno interesse nel far crescere il valore di quelle criptovalute.

Un rappresentante della Casa Bianca ha tentato di minimizzare l’accaduto spiegando che «il presidente ha solo fatto l’esempio di cinque criptovalute», scegliendo le più grandi per capitalizzazione di mercato. In realtà non è così: le cinque criptovalute per capitalizzazione di mercato (escludendo USDT e USDC, che sono stablecoin, un tipo particolare di criptovaluta) sono infatti bitcoin, Ether, XRP, Binance Coin e Solana.

Lo stesso Sacks è stato accusato di aver influenzato Trump a causa di un suo conflitto di interessi, dato che è investitore di Solana, ma si è difeso dicendo di aver venduto tutti i suoi asset cripto prima che Trump entrasse in carica. Sacks non è l’unico membro di questa amministrazione ad avere forti interessi nel settore: lo stesso Trump ha presentato lo scorso anno World Liberty Financial, un protocollo per la finanza decentralizzata, e il figlio Eric Trump ha parlato spesso dei suoi investimenti cripto su X, l’ex Twitter. Lo scorso gennaio, inoltre, Trump e la moglie Melania avevano creato due meme coin, cioè una criptovaluta ispirata a un meme o a un fenomeno di cultura pop, entrambi sviluppati proprio sulla piattaforma Solana.

Ma i legami tra la famiglia Trump e le criptovalute risalgono a prima ancora e seguono il graduale avvicinamento del settore delle criptovalute alla destra statunitense, specie in opposizione alle politiche dell’amministrazione Biden, ritenuta troppo ostile nei suoi confronti. Nel 2022 Trump presentò la sua prima collezione di NFT (i certificati di proprietà basati sulla blockchain che tra il 2021 e il 2022 furono al centro di una grande speculazione) e da tempo si discute di un possibile servizio per lo scambio di criptovalute legato al suo social network, Truth Social.

Prima di allora, nel 2021, Trump dimostrò di avere un’opinione molto critica sui bitcoin, che definì «una truffa contro il dollaro». Nel corso degli anni, come detto, il settore delle criptovalute ha puntato sul partito repubblicano e Trump, con donazioni e attivismo social. A inizio mese la Casa Bianca ha organizzato un vertice sulle criptovalute: buona parte degli invitati aveva donato alla campagna elettorale o alla cerimonia di inaugurazione di Trump.

L’inclusione di criptovalute diverse da bitcoin ha acceso anche un dibattito culturale, soprattutto tra gli investitori di lungo corso, che considerano bitcoin diversa dalle altre: l’unica criptovaluta veramente meritevole di attenzioni. Queste persone, che vengono dette «massimalisti», spesso considerano l’investimento in altre criptovalute un tradimento del white paper di Satoshi Nakamoto, il documento del 2008 scritto dall’anonimo inventore della blockchain, la tecnologia su cui si basano tutte le criptovalute. Tra questi c’è l’imprenditore Nic Carter, che in un commento per il sito specializzato CoinDesk ha raccolto otto motivi per cui questa riserva sarebbe «una pessima idea», e notato come l’inclusione di altre criptovalute possa «svalutare bitcoin e farla sembrare uguale agli altri asset».

Alla base di questo malcontento c’è anche un aspetto più culturale e politico, legato alla storica diffidenza nei confronti dei governi che caratterizza da sempre questo mondo. Bitcoin nacque nei primi giorni del 2009, nel pieno della crisi finanziaria iniziata l’anno precedente, in un clima di malcontento per il sistema finanziario. La criptovaluta si diffuse in una sottocultura particolare, chiamata cripto-anarchismo (o cyber-anarchismo), che fondeva elementi della cultura hacker a quelli del movimento libertario statunitense, fondato sulle libertà personali e sulla riduzione della presenza statale nella vita delle persone (e delle aziende).

Questi precetti influenzano ancora oggi molti imprenditori e investitori del settore e hanno reso l’idea di una riserva nazionale di bitcoin una prospettiva poco allettante per molti di loro. Lo stesso Carter ha sottolineato i rischi di trasformare quello che definisce «un asset apolitico» in un bene «soggetto ai cicli politici di Washington». Anche perché, a ben vedere, bitcoin non ha una funzione veramente «strategica» per gli Stati Uniti, a differenza per esempio del petrolio.

Secondo Carter, l’eventuale acquisto diretto di bitcoin da parte dello stato potrebbe anche peggiorare il rapporto tra gli investitori nella criptovaluta (secondo i dati citati da PBS, sono tra il 7 e il 28% degli adulti statunitensi) e il resto del paese. Per spiegarlo, lo ha messo a confronto con la proposta di Joe Biden per un’amnistia per i debiti studenteschi, che fu criticata dai repubblicani, pur riguardando potenzialmente circa 43 milioni di persone: «I bitcoiner sono un gruppo più ristretto e ancor meno bisognoso di sostegno finanziario da parte del governo. Questa politica causerebbe senza dubbio una reazione negativa inutile nella società nei confronti della comunità cripto».



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