Le banche e gli investitori che voltano le spalle alle armi nucleari

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Mentre l’Unione europea – apparentemente dimenticando di essere nata con la missione di ricostruire la pace sulle ceneri della Seconda guerra mondiale – promette di investire 800 miliardi di euro nel riarmo, mentre il presidente francese Emmanuel Macron ipotizza di estendere l’ombrello nucleare al resto d’Europa, diventa utile capire quali aziende sviluppano le armi nucleari. Quanto ci guadagnano. Chi le finanzia – e quanto. A riferire questi dati è Don’t bank on the bomb, un’iniziativa congiunta dell’organizzazione olandese Pax e di Ican, la Campagna internazionale per l’abolizione delle armi nucleari. L’ultima edizione del rapporto si intitola “A caro prezzo: le aziende che costruiscono armi nucleari e i loro finanziatori”. E, pur testimoniando che il giro d’affari attorno a questi strumenti di distruzione è ancora imponente, riferisce anche qualche segnale positivo.

Le 24 aziende che guadagnano miliardi con gli arsenali nucleari

Gli Stati che possiedono arsenali nucleari sono nove: Cina, Francia, India, Israele, Corea del Nord, Pakistan, Russia, Regno Unito e Stati Uniti. Nel 2023 hanno investito complessivamente 91,4 miliardi di dollari per questi armamenti. L’incremento è di 23,2 miliardi in cinque anni. Soldi che avrebbero potuto spendere per la sanità o per la scuola, ma che hanno preferito elargire alle aziende che costruiscono, gestiscono e modernizzano i loro arsenali.

Don’t bank on the bomb ne analizza 24, che lavorano soprattutto con gli Stati Uniti e – in seconda battuta – con Regno Unito e Francia. Al primo posto ci sono Northrop Grumman e General Dynamics, i cui contratti in essere hanno un valore potenziale rispettivamente di 31 e 24 miliardi di dollari (un calcolo che esclude consorzi e joint venture). Ma tra le imprese che fanno affari multimiliardari per la produzione o la manutenzione di armi atomiche ci sono anche BAE Systems, Boeing, Lockheed Martin e RTX. E l’italiana Leonardo, il cui primo azionista è il nostro ministero delle Finanze, che fa parte della joint venture MBDA con BAE Systems e Airbus.

Nella finanza c’è chi non vuole più avere a che fare con le armi nucleari

Se queste 24 aziende restano sul mercato è perché ci sono banche, fondi pensione, asset manager e altri attori del mondo della finanza che forniscono loro i capitali di cui hanno bisogno. Don’t bank on the bomb ne censisce 260. Messi insieme, detengono poco meno di 514 miliardi di dollari in azioni e obbligazioni di queste 24 aziende (36,7 in più rispetto alla precedente edizione del rapporto). E mettono a loro disposizione quasi 270 miliardi attraverso prestiti e sottoscrizioni (un dato che è invece in calo di 6,2 miliardi). In cima alla classifica ci sono i colossi finanziari americani. Vanguard, Capital Group, BlackRock, State Street tra gli investitori; Bank of America, Citigroup, JPMorgan Chase e Wells Fargo tra i finanziatori. È impossibile dire quale percentuale di questi soldi vada specificamente al ramo delle armi nucleari, perché sono destinati a imprese gestiscono varie attività, anche molto eterogenee.

Le prime dieci società per volume di azioni e obbligazioni delle imprese del settore delle armi nucleari © Don’t bank on the bomb
finanziatori armi nucleari
Le prime dieci società per volume di sottoscrizioni e prestiti alle imprese del settore delle armi nucleari © Don’t bank on the bomb

Sono cifre vertiginose. Ma c’è anche chi prende le distanze da queste fabbriche di morte e devastazione. Al momento della stesura del rapporto di Don’t bank on the bomb, 131 investitori hanno espresso pubblicamente sostegno al Trattato per la proibizione delle armi nucleari (Tpnw), adottato nel 2017 dalle Nazioni Unite ed entrato in vigore quasi cinque anni dopo col raggiungimento della cinquantesima ratifica. All’epoca, nel 2021, gli istituti finanziari con un’esposizione significativa nei confronti dei produttori di armamenti nucleari erano molti di più: 338. Vuol dire che, nonostante i venti di guerra facciano credere il contrario, il Tpnw serve. Vuol dire che prendere posizione serve. E se a prendere posizione è chi gestisce le risorse finanziarie, le imprese prima o poi si troveranno costrette a prenderne atto.



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