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Negli ultimi anni le terre rare sono diventate centrali anche nel dibattito sulla transizione energetica. Essenziali ad esempio per la realizzazione di batterie, turbine eoliche, smartphone e tecnologie militari, rappresentano una risorsa strategica con però rilevanti implicazioni ambientali e sociali. La Sardegna è entrata in questa discussione con la riapertura della miniera di Silius – che custodisce oltre 3 milioni di tonnellate di fluorite – sollevando però nuovi interrogativi su impatti ecologici, opportunità economiche e conseguenze per le comunità locali. A offrire un’analisi in merito è Martina Loi, geografa dell’Università di Cagliari.
Partiamo dalla base: cosa sono le terre rare?
Le terre rare sono un gruppo di elementi che hanno caratteristiche fisiche e chimiche che si sono rivelate fondamentali per alcune applicazioni tecnologiche. Nonostante il nome, non sono elementi rari per la loro distribuzione, ma le loro caratteristiche rendono l’estrazione molto complessa e costosa, oltre che impattate.
Quello che però è importante sapere è che sono elementi cruciali per le attuali tecnologie: trovano applicazione ad esempio nell’elettronica, in particolare nelle batterie ricaricabili, e sono parte dei magneti permanenti che permettono il funzionamento di motori elettrici e turbine eoliche. Quindi sono fondamentali per la transizione energetica e la mobilità sostenibile in quanto permettono di raggiungere ottime prestazioni. Purtroppo però stanno trovando applicazione anche nell’ambito della difesa, come componenti di radar e missili.
La Sardegna è stata recentemente al centro dell’attenzione per la riapertura della miniera di Silius. Qual è il legame tra la fluorite e le terre rare?
Il legame sta nell’ambito di applicazione. La fluorite è minerale essenziale per la produzione di batterie al litio, su cui si basa l’alimentazione di tutti i dispositivi a batteria e in particolare delle auto elettriche. Quello che ci dice la riapertura della miniera di Silius, così come il crescente fabbisogno di terre rare, è che le tecnologie per la transizione energetica hanno necessità di un grandissimo quantitativo di risorse naturali di cui è importantissimo conoscere e stimare costi e impatti, sull’ambiente e sulle popolazioni impegnate nella loro estrazione.
Infatti la domanda globale di terre rare è in costante aumento, alimentata anche dalla transizione ecologica. Eppure, nonostante siano collegate alle necessarie azioni a contrasto della crisi climatica, estrazione e lavorazione hanno un bell’impatto.
Le terre rare sono dette tali perché la loro estrazione è un processo estremamente complesso che richiede un grande quantitativo di energia e produce tanti elementi di scarto e rifiuti di difficile smaltimento. Estrarle e raffinarle implica la generazione di scarti tossici causa di perdita della biodiversità, inquinamento delle acque ed erosione del suolo.
Questo fa sì che i luoghi di estrazione vengano velocemente compromessi, diventando discariche a cielo aperto potenzialmente imbonificabili, in maniera simile a come è successo per le miniere, i siti di estrazione di combustibili fossili e altre attività fortemente inquinanti. Allo stesso modo, le popolazioni impiegate nell’estrazione e quelle a diretto contatto con i siti, si trovano ad abitare in contesti inquinati e quindi anche progressivamente impoveriti.
L’estrazione delle terre rare risulta necessaria all’interno di un sistema capitalista che ha bisogno di sostenersi attraverso lo sfruttamento di risorse naturali
Viene spontanea la domanda: sono azioni necessarie? Se sì, come si concilia l’esigenza di approvvigionamento con la necessità di proteggere ambiente e comunità locali?
Risultano azioni necessarie se considerate all’interno di questo sistema capitalista che ha bisogno di sostenersi attraverso lo sfruttamento di risorse naturali oltre che di lavoro umano e animale non giustamente retribuito. Se ci pensiamo, dalla rivoluzione industriale in poi abbiamo sempre avuto bisogno di qualche risorsa strategica per il sostentamento dell’economia: dal carbone siamo passate al petrolio, al gas, e alle altre fonti fossili. Ora che ci siamo rese conto che i combustibili fossili inquinano l’atmosfera siamo passate al vento e al sole, che però hanno bisogno di nuove risorse per funzionare – minerali, terre rare e così via.
Tutto questo ha l’obiettivo ultimo del progresso e della crescita economica, che però non è mai stata messa davvero in discussione. Da una parte abbiamo certamente assistito a un benessere senza pari, ma destinato a una minima porzione della popolazione, con il risultato di aver esacerbato le disuguaglianze sociali, territoriali e la devastazione ambientale. Tra l’altro, l’estrazione e la lavorazione di queste risorse ha impatti sulle comunità locali, che spesso si ritrovano impiegate nell’industria estrattiva minacciate da forme di ricatto lavorativo, e non saranno probabilmente le destinatarie delle tecnologie avanzate per cui servono le terre rare.
L’abbiamo già visto cosa è successo con il litio per le batterie ricaricabili, con i mega parchi eolici gestiti dalle multinazionali e finalizzati all’esportazione dell’energia prodotta, e non c’è motivo di pensare che le terre rare non abbiano gli stessi impatti sui territori di estrazione.
Attualmente la Cina detiene il monopolio sulla produzione di terre rare. Quali sono le implicazioni geopolitiche di questa dipendenza?
Ogni questione che sembra prettamente ambientale o solamente un fatto tecnologico ha in realtà conseguenze anche politiche, economiche e sociali. Il caso delle terre rare è emblematico perché dipende fortemente dalla localizzazione dei giacimenti e dalla possibilità di estrazione. La Cina si è rivelata attore strategico proprio per la convergenza di questi due fattori. Ma la Cina – così come l’India e ora anche l’Ucraina in cui pare ci siano dei giacimenti per cui si stanno cercando gli accordi commerciali – sono paesi strategici all’interno del più ampio sistema geo-politico ed economico globale.
Non si può quindi considerare l’approvvigionamento di questa risorsa e le sue singole applicazioni in maniera slegata dagli accordi politici tra i vari paesi e questo rende estremamente delicata ogni trattativa. In sostanza l’intera transizione energetica e lo sviluppo sostenibile sono dipendenti dagli accordi economici e geo-politici tra colossi globali, con tutta la complessità che ne deriva. L’Europa sta cercando per questo di rendersi maggiormente autonoma dall’importazione. Al momento gli unici giacimenti sono in Svezia e in Norvegia per cui, per quanto le intenzioni possano essere buone, ci scontriamo con la scarsità di questa risorsa.
È quindi cruciale cercare di capire se e come rendersi maggiormente autonomi dal punto di vista dell’approvvigionamento ma anche trovare alternative all’estrazione di nuovo materiale: lavorare sul riciclo, sul miglioramento dell’efficienza delle tecnologie, su tecnologie alternative e meno dipendenti dalle terre rare. Non so se l’Italia e in particolare la Sardegna possano contribuire a questa strategia, né credo debba necessariamente essere la Sardegna la sede di nuove attività estrattive dopo la devastazione già subita dall’industria mineraria, petrolchimica e militare. Però certamente può avere un ruolo nella ricerca tecnologica e nella proposta di alternative sostenibili al sistema attuale.
In conclusione, come possiamo conciliare la necessità di ridurre la dipendenza dall’estero, di materiali necessari in vari ambiti della società, con il bisogno di evitare nuovi cicli di devastazione ambientale e sfruttamento territoriale?
La transizione energetica è assolutamente necessaria nel momento in cui tutto ci dice che il fabbisogno energetico è in costante aumento e destinato ad aumentare esponenzialmente. È indispensabile quindi trovare nuove fonti di energia sempre meno impattanti per sostenere il nostro stile di vita. Le attuali tecnologie sono un importante passo avanti ma hanno ancora dei limiti e degli impatti non trascurabili: è necessario lavorare sulla ricerca, sulla riduzione degli impatti in tutte le fasi di vita degli impianti, lungo tutta la filiera. Perché se è vero che produrre energia eolica e solare non produce emissioni in loco, il rischio di impatti sociali e ambientali negativi è elevato e va mitigato.
Ricerca tecnologica e mitigazione degli impatti, ma servirebbe anche un ripensamento radicale degli stili di vita così energivori che l’occidente sostiene e riproduce costantemente. Si potrebbe ragionare sulle filiere corte, sulle economie di comunità o circolari, sulla produzione e consumo locale dell’energia, insieme a una maggiore autonomia gestionale. Un impegno per la riduzione e l’ottimizzazione dei consumi e degli sprechi è una strada che dobbiamo percorrere sempre di più se non vogliamo giungere al collasso ecologico. Gli esempi ci sono già, non è impossibile ripensare il nostro sistema insostenibile. Deve essere però un percorso affrontato collettivamente e politicamente, senza delegare ai singoli individui le azioni virtuose.
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