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Rispetto alle posizioni radicali che si schierano sull’abolizione di ogni consumo di proteine animali propone una posizione più pragmatica, che punti soprattutto sul miglioramento delle condizioni di vita degli animali e la diminuzione della loro sofferenza, visto che comunque sul Pianeta “siamo 8 miliardi di persone che vogliono mangiare sempre più proteine animali”. E anche sui fondamentali diritti animali auspica un lavoro di estensione e esclusione progressivo, in base anche al fatto che le specie sono molto diverse tra loro. Nel nuovo libro Considera gli animali (Laterza) Simone Pollo, professore associato di Filosofia Morale al Dipartimento di Filosofia della Sapienza, fa il punto sui temi etici che riguardano gli animali e il loro consumo. E propone una terza via per salvaguardare il loro benessere, evitare la loro sofferenza e al tempo stesso salvare l’ambiente. Aumentando la consapevolezza individuale e spronando la politica a fare molto di più.
Il suo libro parte spiegando come per molti secoli l’umanità non abbia potuto scegliere cosa mangiare. Si viveva meglio quando non si poteva scegliere?
Meglio non direi, per una serie di ragioni: in questo campo come in un’altra serie di ambiti quando aumenta la possibilità di scelta per gli esseri umani, c’è sempre la possibilità di avere un progresso, si aprono nuovi spazi di esperienza e quindi possibilità di elaborare forme di vita e riflessione morale differenti, di fare scelte personali e politiche che in passato non erano possibili. L’aumento delle possibilità di scelta in linea di principio è positivo. Anche se è vero altrettanto che proprio la libertà di scelta è uno dei motivi per cui noi oggi trattiamo gli animali in questo modo.
Lei mette in evidenza una spaccatura tra chi sostiene che gli animali non si debbano mangiare tout court e chi invece punta a migliorarne le condizioni. Ci può essere convergenza tra queste posizioni?
Se parliamo dal punto di vista teorico, alcune posizioni di stampo radicalmente abolizionista e alcune posizioni cosiddette “welfariste”. I primi vogliono l’abolizione di ogni uso degli animali, mentre i secondi si preoccupano della qualità della vita, del benessere, degli animali che sono utilizzati dagli umani. Queste posizioni è difficile che si incontrino, ma questo, appunto, dal punto di vista strettamente teorico. In realtà, il punto di incontro è pratico. Oggi è difficile pensare che una posizione radicalmente abolizionista – alcuni sostengono che anche gatti e cani da compagnia siano schiavi che sfruttiamo – abbia delle possibilità di essere realizzata nel breve e medio periodo; quello che è fattibile intanto è fare una riflessione pubblica e personale su quelle che sono le conseguenze delle nostre scelte alimentari. E lavorare sia singolarmente che a livello collettivo sulle possibilità di una diminuzione del consumo dei prodotti di origine animale e sul miglioramento delle condizioni di vita degli animali.
Nel libro affronta il tema dei diritti degli animali. A che punto siamo?
Il dibattito è attivo ma anche molto controverso. Qualcuno afferma che dovremmo modellare i diritti animali su quelli umani, ma i diritti umani sono diritti che appartengono a un’unica specie. Insomma quando parliamo di diritti animali dobbiamo confrontarci col fatto che gli animali sono una quantità di specie sterminata, sono milioni e sono molto differenti. Il fatto di allargare i diritti giuridici in senso proprio credo possa passare attraverso una strada che non è lineare o estensiva al massimo. Ad esempio, gli scimpanzé e i gorilla sono stati di fatto di esclusi nel contesto UE dalla sperimentazione animale. Di nuovo, è difficile pensare a un approccio lineare, meglio lavorare a macchia di leopardo.
Anche sul fronte della sperimentazione, come diceva?
L’ambito della sperimentazione va valutato dal punto di vista morale con criteri differenti dall’alimentazione, perché noi oggi non abbiamo quasi mai alternative all’uso degli animali a scopo scientifico, a differenza dell’alimentazione. Però nel contesto dell’Unione europea c’è un movimento di inclusione che avanti anche se, forse, troppo lentamente.
Un aspetto chiave è la sostenibilità ambientale della carne. Da questo punto di vista, però, gli impatti sono molto diversi rispetto alle specie, e addirittura latticini e alcuni vegetali sono più impattanti di carni come quella del pollo. Il quadro si complica?
Intanto bisogna partire da una premessa: non esiste vita che sia a costo zero, qualsiasi essere vivente ha un impatto sul Pianeta, pensare che la vita possa essere in perfetto equilibrio è qualcosa di irrealistico. È vero che ci sono prodotti vegetali o ambientali che hanno un impatto maggiore, ma la valutazione della presenza degli animali delle nostre tavole ormai deve essere un combinato di due considerazioni, una è quella ambientale, l’altra è quella della sofferenza, perché il pomodoro ha un costo ambientale alto, ma a differenza del pollo non sperimenta malessere o sofferenza nel corso della produzione. Ciò va tenuto in considerazione. Poi ci sono prodotti di origine vegetale che implicano costi ambientali elevati e anche una sofferenza umana e di sfruttamento del lavoro umano: e questa è un’altra variabile. Non esiste una soluzione perfetta e universalmente valida, quello che è importante è iniziare a pensare a quello che noi consumiamo e cominciare a fare scelte che siano guidate da criteri che non siano solo il gusto, l’abitudine o il costo. Introdurre un elemento di valutazione morale, questo già sarebbe tantissimo.
Cosa pensa dei nuovi cibi prodotti dalla tecnologia?
Rispetto allo sviluppo tecnologico in campo agroalimentare va riconosciuto che, grazie all’innovazione e al progresso scientifico, abbiamo risolto grandi problemi di nutrizione; non possiamo pensare di ritornare al passato che abbiamo mitizzato, primo perché siamo otto miliardi e non possiamo sfamarci con i vecchi modi di produrre cibo; inoltre, nell’ambito dei novel food abbiamo tutto un dibattito che è condizionato dall’ideologia e da una serie di interessi con la politica: pensiamo alla battaglia contro il fatto che non possa chiamare l’hamburger vegetale “hamburger” perché si confonderebbero i consumatori in nome della tradizione: è qualcosa di strumentale, sciocco e anche immorale nella misura in cui distanzia le persone dal fare scelte più consapevoli.
In conclusione: bastano gli sforzi dei singoli o serve la politica (che poco fa)?
È chiaro che c’è un problema. E ritorniamo all’inizio. La scelta è qualcosa che si possono permettere solo coloro che hanno una certa disponibilità economica e culturale e il tema è quello dell’educazione e di una gestione dello sviluppo che faccia sì che anche i prezzi siano controllati, ma questo riguarda la politica. Se vediamo le politiche italiane ed europee ci sono molte asimmetrie nel modo in cui si gestiscono le politiche alimentari. Ma non si può pensare di trasformare la relazione dell’essere umano con il cibo solo sommando tante piccole scelte individuali, quelle sono una spinta: è la politica che, in definitiva, deve assolutamente farsene carico.
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