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Una recente pronuncia della Corte di Cassazione fa chiarezza su una fattispecie tipica nel mondo delle professioni che riguarda il caso del professionista (o dello studio associato) che mette a disposizione spazi e servizi dello studio per i propri collaboratori, anch’essi professionisti.
Nel caso esaminato dall’ordinanza 21 febbraio 2025 n. 4663, l’Ufficio aveva contestato in capo a uno studio associato tra da due avvocati la deducibilità integrale di alcune spese di gestione dell’ufficio, sostenendo che una quota delle “spese comuni” avrebbe dovuto essere riaddebitata agli altri professionisti-collaboratori, giovani laureati “monocommittenti”.
L’Ufficio aveva quindi ricondotto la suddetta fattispecie nella disciplina del riaddebito delle spese comuni di studio tra professionisti la quale, all’epoca dei fatti, non era disciplinata dal TUIR, ma era stata analizzata dall’Agenzia delle Entrate. Più nel dettaglio, secondo l’Amministrazione finanziaria (circ. nn. 58/2001 e 38/2010), il professionista che sostiene una “spesa comune” di studio può dedurre il costo solo per la parte riferibile all’attività da lui svolta e non anche per la parte riaddebitata o da riaddebitare ad altri, in quanto tale parte di costo non è inerente alla sua attività. Simmetricamente, le somme incassate per il riaddebito dei costi ad altri professionisti, per l’uso comune degli uffici, non costituiscono reddito di lavoro autonomo in capo al professionista che ha sostenuto le spese.
In particolare, la Suprema Corte ha respinto il ricorso proposto dall’Ufficio, in quanto la fattispecie in esame non è stata ritenuta coincidente con quella dell’uso comune dello stesso studio da parte di più professionisti.
I giudici hanno rilevato che lo studio legale era stato fondato da due avvocati, che si erano avvalsi della collaborazione di giovani laureati. Questi ultimi, prestando la propria attività esclusivamente per lo studio, avevano emesso le loro fatture nei confronti del medesimo. Non vi era stato, quindi, un rapporto di tipo paritetico tra lo studio legale e i collaboratori, perché questi ultimi, soggetti alle direttive dei propri “domini”, non avevano svolto alcuna attività autonoma dalla quale fosse derivata la necessità di ripartire le spese di uno studio comune. Era mancata, in effetti, una struttura “comune”, proprio perché lo studio era riconducibile solo ai due avvocati, che avrebbero dovuto sostenere tutte le relative spese.
La conclusione della Cassazione è apprezzabile, in quanto sembra valorizzare la funzione dello studio legale quale committente dei collaboratori. Data tale funzione, appare quindi corretto concludere che lo studio legale dovesse farsi carico di tutte le spese necessarie per l’esercizio della propria attività (es. quelle relative alla messa a disposizione di spazi e servizi per i collaboratori), in quanto sostenute nell’interesse dello studio stesso.
La pronuncia in esame sembra superare la precedente sentenza n. 16035/2015, relativa a un caso simile, nella quale la Corte, sulla base dei precedenti di prassi in tema di riaddebito, aveva confermato l’indeducibilità parziale dei costi dello studio legale in capo al suo titolare. In tal caso, nessun rilievo sembrava essere stato dato al fatto che gli altri professionisti ai quali non erano state riaddebitate le spese fossero dei “giovani collaboratori tirocinanti”.
Insindacabile la scelta di prendere lo studio in locazione
Nonostante la fattispecie non sia descritta in modo chiaro nell’ordinanza in commento, l’Ufficio aveva anche ripreso a tassazione parte del canone di locazione dell’immobile adibito a studio. Ciò in base a un’argomentazione con cui era stata contestata la scelta di prendere in locazione l’immobile (perché più onerosa rispetto all’acquisto mediante leasing immobiliare) che sembra confondere i concetti di inerenza e antieconomicità.
L’ordinanza deli giudici di legittimità è condivisibile in quanto ribadisce che l’inerenza indica il rapporto tra il costo e l’attività professionale sotto il profilo qualitativo, mentre l’antieconomicità di un costo può essere un indice sintomatico dell’assenza di inerenza, ma non si identifica con essa. La Suprema Corte ha considerato il canone di locazione inerente, in virtù del suo collegamento con l’esercizio dell’attività, e ha sottolineato che la scelta sulle modalità di acquisizione dell’immobile professionale costituisce un’operazione di apprezzamento complessa che non compete all’Amministrazione finanziaria.
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