La guerra civile d’Occidente – SettimanaNews

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Per descrivere il Donald Trump che si è presentato al Congresso il 4 marzo in assetto da guerra – almeno tre i fronti aperti: quello commerciale, quello delle guerre culturali e quello contro la burocrazia federale – dobbiamo partire dal 2016 (una data molto vicina, in realtà: vi sono altre radici ben più profonde).

Lo stesso vale per il J.D. Vance della Conferenza di Monaco, o per la Conferenza conservatrice del CPAC (quella nella quale è intervenuta anche Giorgia Meloni). Dopo il decennio populista – quello del primo Trump, della Brexit, dell’elezione di Bolsonaro e di tanti altri eventi a «trazione» populista – siamo ora entrati nel decennio della guerra civile occidentale.

La prima presidenza compiutamente post-liberale dell’era americana è un’evoluzione di quella insediatasi nel 2016: mette in discussione il pilastro della separazione dei poteri, dell’indipendenza della burocrazia e persegue in modo strategico il rafforzamento incostituzionale dell’esecutivo, intende limitare i diritti costituzionali degli oppositori.

Può farlo in virtù di una preparazione alla guerra totale che si è avviata nel 2016 (quando però erano presenti contrappesi politici nella stessa Casa Bianca e nel Partito repubblicano), di una riorganizzazione ordinata durante la presidenza Biden (con le idee dei think tank, la ricerca di personale politico-amministrativo «nativo trumpiano», nuovi testimonial nei media digitali) e di un lasciapassare da parte di ampi settori della finanza e delle corporation.

Il decennio populista: rivolta e distacco

La fase populista degli anni Dieci si è presentata come una febbre dei sistemi democratici, sia di quelli «maturi» che di quelli più fragili.

Sono state versate tonnellate di inchiostro e di byte sul fenomeno del populismo, soprattutto a partire dall’anno simbolo del 2016: uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea e sconfitta elettorale di Hillary Clinton.

Il populismo, per chi scrive, rappresenta un elemento connaturato ai sistemi democratici. Il «governo del popolo» è una chimera che nessun regime politico può davvero garantire, e in specifiche fasi di crisi emergeranno attori che denunceranno la mancata promessa delle élite.

Al governo democratico si può avvicinare per approssimazione – caratterizzata dalla presenza di élite politiche e partiti relativamente rappresentativi, da una società civile vivace che interagisce con le istituzioni, da conflitti «governati» e da una certa redistribuzione del benessere – e se questa approssimazione riesce a funzionare… le democrazie possono dormire qualche sonno tranquillo, almeno per un po’.

Quando vengono meno alcune di quelle condizioni il populismo riemerge, e con esso nuovi imprenditori politici che denunceranno la corruzione morale delle élite.

La febbre populista è ciclicamente inevitabile (almeno dai tempi della contrapposizione fra populares e optimates: a volte ha anche avuto effetti benefici, perché ha fatto emergere bisogni e domande che non trovavano cittadinanza).

Gli anni Dieci dei Duemila hanno visto l’emersione di outsider che oggi sono leadership di governo, o che rappresentano un’opposizione sufficientemente robusta da aspirare a ruoli di governo.

Vi è stata una rivolta contro gli esiti della globalizzazione economico-finanziaria avanzata nel dopo guerra fredda abbastanza leggibile (a partire dalla crisi del 2007/2008).

Vi sono stati segmenti di società danneggiati dalla crisi in modo diretto negli Stati Uniti e altrove, mentre in Europa i nostri cittadini hanno patito le scelte dell’austerity imposta dall’Ue.

In questo contesto si è reso ancora più visibile una geografia del declino interno ai Paesi occidentali (territoriale e sociale), una mappa di apocalittici e integrati (le nostre «Detroit» danneggiate dalle nuove configurazioni dell’economia e della produzione globale, per esempio). Infine, ne è uscita malconcia anche la classe media occidentale, vero architrave della tenuta delle nostre democrazie.

Una parte consistente di cittadini ha abbracciato il populismo anti-sistema nelle sue diverse forme, o sono scivolati nell’apatia e nel distacco.

Negli Stati Uniti la sfiducia nelle istituzioni divenne fatto sociale – rilevato dalle società demoscopiche – dopo la guerra in Vietnam; dopo una serie di alti e bassi, l’ultimo decennio ha rappresentato un’ondata di rabbia e apatia senza precedenti, che coinvolge anche istituzioni come la Corte Suprema, le corporation, le burocrazie pubbliche, i media, le organizzazioni di rappresentanza, quelle culturali e di terzo settore… il mondo organizzato dell’era precedente (che ha tante colpe per essersi ridotto così, in verità) è sotto attacco o non è legittimato a sufficienza per essere considerato credibile. Non offre promesse di futuro più allettanti della vendetta populista.

Il consolidamento del nazionalcapitalismo

Uno scenario del genere non poteva che favorire nuove élite nazionaliste. Negli anni Venti dei Duemila dovremmo dismettere questa categoria onnicomprensiva del populismo – che pure è utile per comprendere alcuni elementi decisivi, sia di sostanza che di processo – e acquisire come, alla fine della febbre democratica del decennio precedente, viene ora proposta una via d’uscita dall’ordine liberale che potremmo definire «nazionalcapitalista».

Una via d’uscita accettabile per molti elettori, già al governo nel Paese più potente del mondo e in altri Paesi. È già operativa e sta apportando modifiche ai nostri sistemi economici, istituzionali, politici, costituzionali (ovviamente non possiamo sapere quanto profonde).

Questa definizione è ripresa da un articolo uscito per la Rivista Il Mulino il 20 giugno 2023, a firma dell’economista Roberto Tamborini.

La sinistra è in fase di arretramento perché è stata il campione della fase precedente, quello neo-liberale, entrata in crisi con lo shock finanziario del 2008: «La sinistra riformista era nata per riformare il capitalismo rendendolo socialmente equo e sostenibile, ora vuole riformare la società per renderla adatta al capitalismo globale» (questa citazione viene da un altro articolo di Tamborini del 2018. Vi si descriveva la defunta sinistra della terza via).

Nel frattempo il capitalismo globale – pensiamo a quello delle piattaforme – da forza distruttiva di innovazione (vi ricordate l’alleanza fra Barack Obama e la Silicon Valley?) è divenuta attore oligopolistico e rentier, alleato con Trump contro i competitor internazionali e gli spettri della regolazione (quella della Ue, ma anche quella di Joe Biden e della sua «zar» dell’antitrust, Lina Khan).

Questa la definizione di nazional-capitalismo offerta in quell’articolo: una «organizzazione socio-economica di tipo capitalista incorniciata in un sistema ideologico, politico e istituzionale imperniato sulla nazione e l’interesse nazionale», in contrapposizione alla defunta socialdemocrazia europea, assorbita nei Novanta dal modello liberista anglosassone.

E ancora:

«La materia dello scambio politico, in sintesi, è la promessa di restituire un insieme di benefici materiali (sicurezza economica, sociale, individuale, militare) e immateriali (identità culturale, religiosa) andati perduti.

La produzione di tali benefici richiede un’organizzazione dei poteri statuali e del loro ruolo nell’economia diversa, tendenzialmente alternativa, rispetto a quella sia del modello liberista sia di quello socialdemocratico.

I leader nazionalcapitalisti presentano un’offerta politica interclassista, di ricomposizione della società polarizzata, rivolta sia a chi detiene le leve dell’economia sia a chi ne dipende. Il punto di sintesi è l’idea di nazione, la difesa della sua sovranità e del suo interesse, presentati come sovranità e interesse di tutti».

Emerge un quadro ideologico molto preciso, ormai ben visibile e reso palese da questa amministrazione americana: ritorno a una politica imperiale tradizionale in nome dell’interesse nazionale, che si esplicita in una politica estera centrata sulle sfere di influenza territoriale; difesa dell’identità nazionale, intesa come ancoraggio dei valori americani a presunti valori «tradizionali» contro la società secolarizzata e multietnica (le guerre culturali); la promessa della difesa dell’economia nazionale e del cittadino lavoratore/consumatore che da essa dipende; la difesa della nazione dall’immigrazione; l’attuazione piena della volontà popolare per mezzo della leadership presidenziale, il cui corollario è il superamento dei freni posti da contro-poteri istituzionali e poteri indipendenti (dai giudici alla agenzie federali); la promessa di una pressione fiscale ridotta, a sostegno dei «produttori» nazionali; lo Stato minimo, contro lo Stato novecentesco, palude di corruzione e spreco che va riorganizzata con logica privatistica e manageriale (se non appaltata, direttamente, ai privati: il corollario è l’abbattimento del confine pubblico/privato, à la Musk).

Che Trump creda davvero a tutto questo o si tratti di un’ideologia intesa come «falsa coscienza» (un circo Barnum mediatico/ideologico organizzato a favore dei propri interessi di clan), poco ci interessa. Conta il risultato e conta sapere che, dopo Trump, le correnti ideologiche del nazionalcapitalismo – non sempre in accordo fra loro – gli sopravviveranno (lo storico Quinn Slobodian, recentemente, ha individuato almeno tre correnti di pensiero presenti nell’amministrazione Trump).

Un elemento di grande rilievo rispetto al 2016 è che questa ideologia è tollerata e accettata dalle élite economico-finanziarie e dei fondi di investimento – da BlackRock a J.P. Morgan – che non trovano più ragionevole fiancheggiare il partito Democratico. Quest’ultimo, per quattro anni, ha sostenuto una politica economica orientate verso nuove forme di regolazione, di politiche anti-trust e di intervento pubblico (Bill Ackman, grande nome della finanza americana e storico elettore democratico, è stato uno dei primi a sostenere la campagna di Elon Musk contro i campus americani).

Nulla di rivoluzionario o di «socialista» nell’azione di Biden (specie dopo la crisi del Covid-19), ma sufficiente a diffidare del corso dell’economia bideniana e della sua debole vicepresidente. Questo semaforo verde – che non sappiamo per quanto brillerà – è un altro elemento dell’accelerazione reazionaria di questi anni (l’idea di «accelerazione reazionaria» è ripreso da un articolo di Lorenzo Castellani), è un altro tassello del puzzle nazionalcapitalista.

La nuova guerra civile d’Occidente

Questa ideologia si consolida all’interno di un ecosistema mediatico filo-trumpiano che riesce costantemente, per ora, a spiazzare l’avversario e a impedirgli contromanovre efficaci.

La strategia individua nemici da abbattere e si basa su una narrativa sganciata dai dati fattuali.

In particolare non esiste una contronarrazione che permetta ai democratici di guardare altrove rispetto ai temi che Trump mette al centro della scena: al comando è sempre lui (un fatto naturale nei primi cento 100 giorni di presidenza, inusitata la massa di bocche di fuoco schierate).

Non esiste anche perché i democratici sono impalpabili, divisi fra correnti ed élite molto diverse fra loro – i vecchi moderati della terza via, le nuove leve radicali, i campioni delle micro-identità o dei micro gruppi di interessi, specifici interessi materiali ecc ecc – e non ancora capaci di replicare e coordinare una contronarrazione che utilizzi tecniche altrettanto efficaci e che diventi altrettanto popolare e virale (come fu, per esempio, la reazione collettiva alla morte di George Floyd nel 2020). Lo stesso vale per l’Europa, come ha descritto bene Gloria Origgi su Appunti).

Tempo fa, il conduttore di Fox News Jesse Watters ha fornito una spiegazione sintetica e accurata di come la destra amplifichi le notizie e raggiunga il suo pubblico:

«Stiamo conducendo una campagna di guerra informativa contro la sinistra da XXI secolo, mentre loro usano tattiche degli anni Novanta (…). Quello che vedete a destra è guerriglia asimmetrica e dal basso. Qualcuno dice qualcosa sui social media, Musk lo ritwitta, Rogan ne parla nel suo podcast. Fox lo trasmette. E quando arriva a tutti, milioni di persone lo hanno già visto».

La cosa importante da ricordare è che ciò che Watters sta descrivendo riguarda informazioni inaffidabili o inaccurate, ma che risultano accattivanti per la destra.

Quello che i media al di fuori della bolla della destra cercano di ricacciare indietro, invece, sono affermazioni false o ingannevoli. Ciò che ha più valore a destra è l’attenzione, e ciò che Watters descrive è il suo acceleratore: la viralità. Le menzogne spesso diventano virali, e la viralità è il dominio sia di Musk che di Joe Rogan. L’approccio wattersiano alla diffusione di falsità si basa in primis sulla sfiducia del suo pubblico nei confronti degli altri media.

Un sondaggio del Washington Post, condotto lo scorso anno tra gli elettori degli stati in bilico, ha mostrato quanto la sfiducia e la politica di destra siano intrecciate: gli intervistati che avevano meno fiducia nei media erano anche i più forti sostenitori di Trump.

E qui veniamo al punto finale: dall’incredibile e irrituale apparizione di J.D. Vance alla Conferenza di Monaco del 14 febbraio, al discorso di Trump di fronte al Congresso del 4 marzo, quella a cui assistiamo è una continua riproposizione di una fiaba organica e coerente.

Ci sono passaggi di policy sostanziali, che i cronisti annotano per capire in quale direzione andrà l’amministrazione – sono appena stati annunciati nuovi round di dazi per l’Europa e altri Paesi, e così sarà, presumibilmente – ma questi discorsi servono soprattutto a mantenere viva la guerra civile (fredda) che gli USA stanno combattendo ed esportando nel resto del mondo.

Secondo Vladimir Propp, la fiaba si costruisce attorno a una serie di funzioni narrative prestabilite e ruoli tipologici che, seguendo un ordine invariato, generano la coerenza interna del racconto (gli studiosi di questo campo perdonino la semplificazione). I repubblicani producono e consolidano miti; i democratici, indignati, denunciano e ricorrono al fact checking … cosa potrebbe andare storto?

Vance, nel suo discorso di Monaco, può risemantizzare il concetto di libertà accusando gli europei di volerla limitare (in pratica difendendo la libertà di offesa e mistificazione online di gruppi di destra ed estrema destra, alleati con il trumpismo), mentre Trump può continuare a ridisegnare a colpi di retorica il rapporto reale fra istituzioni americane.

Il presidente ha parlato per un’ora e mezzo ai membri del suo culto, radunati di fronte alla TV; nel frattempo, ha ricordato a un altro potere costituzionale – il Congresso – che DEVE fare ciò che chiede, perché fuori c’è il loro mondo che li guarda e li giudica. Dentro il capo, fuori il popolo. In mezzo, Congressmen che non devono ostacolare la nuova forma di espressione della volontà popolare, il capo medesimo. Ha ribadito come imprescindibile la stesura di un disegno di legge sui tagli fiscali, e chiesto finanziamenti per difendere i confini «senza indugi».

«Ho interpretato tutto questo come un segnale che dobbiamo metterci al lavoro», ha detto il senatore James Lankford, Repubblicano dell’Oklahoma «Quello che ne ricavo è … consegnatemelo il più velocemente possibile».

Il Re ha domandato. Il popolo ha ascoltato. Il Congresso si deve adeguare. I giudici non devono ostacolare. I wokisti dei campus (minacciati da Trump via Truth) non devono protestare. I nemici devono tremare. Sperando che le forze che abbracciano questo stesso modello di relazione amico-nemico ce la facciano nel resto del mondo, dall’Argentina alla Romania. Anche loro in lotta con la «Threat from Within» (il nemico interno) evocato da Vance a Monaco di Baviera.

Il fronte nazionalcapitalista ha le idee piuttosto chiare, anche se questo non basta a garantirgli un successo duraturo; sul fronte opposto non è chiaro quale alleanza sociale e politica possa emergere, organizzata da chi, con quale missione. L’appello alla difesa della democrazia – che in Europa si traduce, di solito, in grandi coalizioni o «blocchi repubblicani» – non pare bastare.

  • Dal Substack di Stefano Feltri, Appunti, 6 marzo 2025

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