la penetrazione cinese solleva timori in Occidente

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Pechino è presente massicciamente in 78 scali in 32 nazioni africane. Oltre all’aspetto economico gli USA temono la conversione di questi porti in basi militari, come già accaduto a Gibuti. Sette le strutture ad alto rischio. Una presenza che minaccia, secondo Washington, la sovranità africana

11 Marzo 2025

Articolo di Redazione

Tempo di lettura 4 minuti

La Cina ha consolidato una presenza massiccia nei porti africani, controllando circa 78 scali marittimi in 32 nazioni del continente. Secondo un’analisi dell’African Center for Strategic Studies, istituto affiliato al Dipartimento della Difesa USA, le aziende cinesi sono così attive in oltre un quarto dei 231 porti commerciali africani, una penetrazione superiore a quella raggiunta in America Latina e Asia. Penetrazione che sta generando un crescente interesse e preoccupazioni riguardo alle implicazioni sulla sovranità nazionale, la sicurezza e gli obiettivi geostrategici dei paesi africani.
Specialmente a Washington.

Espansione e controllo portuale

Lo studio evidenzia come le imprese cinesi siano spesso coinvolte nell’intero processo di sviluppo portuale, controllando tutti gli aspetti dalla finanza alla costruzione, dalle operazioni quotidiane fino alla proprietà azionaria. Un caso esemplificativo è quello della China Communications Construction Corporation (CCCC), che si aggiudica i lavori come appaltatore principale per poi assegnare subappalti a società sussidiarie come la China Harbor Engineering Company (CHEC). Quest’ultima ha recentemente completato la costruzione del porto di Lekki Deep Sea in Nigeria, acquisendo contestualmente una quota finanziaria del 54% nella struttura, che ora gestisce con un contratto di locazione della durata di 16 anni.

Entrate commerciali

I ritorni economici per Pechino risultano estremamente vantaggiosi: per ogni dollaro investito nei porti africani, la Cina arriva a guadagnare fino a 13 dollari in entrate commerciali. Questo livello di coinvolgimento permette alle aziende cinesi di esercitare un controllo determinante sulle operazioni portuali, inclusa l’assegnazione dei moli, l’accettazione o il rifiuto degli scali portuali e l’offerta di tariffe preferenziali per determinati operatori.

Un simile controllo solleva serie preoccupazioni sulla sovranità e la sicurezza nazionale dei paesi ospitanti, poiché concede a un attore esterno la capacità di influenzare in modo decisivo il commercio e l’accesso alle infrastrutture strategiche.

Possibile utilizzo militare

Una preoccupazione particolarmente significativa riguarda il potenziale riutilizzo dei porti commerciali per scopi militari. L’evoluzione del porto di Doraleh a Gibuti rappresenta un precedente emblematico: inizialmente presentato come un’impresa esclusivamente commerciale, nel 2017 è stato ampliato per ospitare una struttura navale militare, diventando così la prima base militare cinese all’estero. Questo sviluppo ha alimentato speculazioni sulla possibilità che Pechino possa replicare questo modello di conversione in altri porti africani.

I porti interessati

Gli analisti americani identificano sette porti che si distinguono per l’elevata probabilità di essere impiegati per un futuro uso militare cinese: Luanda (Angola), Doraleh (Gibuti), Mombasa (Kenya), Walvis Bay (Namibia), Lekki (Nigeria), Victoria (Seychelles) e Dar es Salaam (Tanzania).

Questi scali marittimi sono strategicamente posizionati sia nell’Oceano Atlantico sia in quello Indiano. I criteri utilizzati per questa selezione comprendono caratteristiche fisiche specifiche, come il numero di posti barca, la lunghezza e le dimensioni degli attracchi, la capacità di rifornimento, insieme a considerazioni di natura politica, tra cui l’ubicazione strategica, i legami tra i partiti di governo locali e la Cina, e la presenza di investimenti diretti esteri cinesi nella regione.

Obiettivi geostrategici e interessi africani

Questa espansione portuale rappresenta un business strettamente allineato con le priorità strategiche di Pechino, come chiaramente indicato nei suoi piani quinquennali e nell’ambiziosa iniziativa Belt and Road. Tali programmi mirano a trasformare la Cina in una potenza marittima globale e a collegare nuovi corridoi commerciali alla sua economia in rapida espansione. Nelle analisi strategiche cinesi circola un termine non ufficiale, “punto di forza strategico all’estero”, utilizzato per indicare porti che rivestono un valore strategico ed economico speciale per gli interessi nazionali.

Lo studio sottolinea come tra gli obiettivi dell’utilizzo di questi porti figurino anche interessi geostrategici che potrebbero andare a scapito degli interessi africani. Ad esempio, questa dipendenza infrastrutturale potrebbe rendere i paesi del continente meno propensi a opporsi a eventuali sanzioni internazionali contro la Cina.

Poco dibattito pubblico per gli americani

Gli esperti americani esprimono serie preoccupazioni riguardo ai rischi per la sovranità e la sicurezza delle nazioni africane coinvolte, tematiche che raramente vengono affrontate pubblicamente nei dibattiti politici. Il timore principale per Washington resta la possibilità della realizzazione di ulteriori basi militari straniere nel continente africano. È emerso, ad esempio, che la Cina potrebbe aver esplorato la possibilità di una base a Walvis Bay, in Namibia. Possibilità apparsa per la prima volta sulla stampa namibiana nel 2015.

Sviluppo “militare” che potrebbe involontariamente trascinare i paesi ospitanti nelle complesse rivalità geopolitiche della Cina, compromettendo il loro tradizionale impegno per una politica di non allineamento nel contesto internazionale.

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