Smart working e campagna, una nuova frontiera?


Perché lasciare la città

“Vivere spendendo 200 euro al mese”. “Ho lasciato la città per vivere in campagna”. “Vita semplice in provincia”. Sono alcuni titoli clickbait su YouTube che attirano l’attenzione di quegli utenti in cerca di distrazione e di evasione dai ritmi frenetici e dal cemento opprimente della città.  A seguito dell’emergenza Covid-19 – che ai più ha significato la riscoperta delle “piccole cose” come il valore del tempo trascorso in famiglia e l’importanza degli spazi aperti – si osservano fenomeni che maturano nella nostra società come la scelta di vivere fuori dalle aree urbane.

Una tendenza – secondo le analisi del Weldon Cooper Center for Public Service dell’Università della Virginia – popolare tra i Millennial (nati tra il 1981 e il 1996) e la Gen Z (nati tra il 1997 e il 2012), che su TikTok illustrano i motivi per cui trasferirsi in campagna sia una scelta migliore rispetto alla città. Innanzitutto la qualità dell’aria: lontano dai centri urbani, l’inquinamento atmosferico e quello acustico sono nettamente inferiori. Un altro fattore, importante, è il costo della vita: acquistare o affittare una casa in campagna è molto più economico rispetto alle città. Ancora: la possibilità di autoproduzione per mezzo di orti, allevamenti e fonti energetiche rinnovabili in grado ridurre ulteriormente le spese.

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Insomma, in particolare per le giovani generazioni – consapevoli dell’instabilità economica, sensibili alle tematiche ambientali e attente alla propria salute mentale – il trasferimento in provincia appare una scelta logica e vantaggiosa. In questa prospettiva, il lavoro da remoto emerge come lo strumento capace di rendere questa alternativa non solo praticabile, ma anche sostenibile nel lungo periodo.

Back to office: il nuovo volto del lavoro post-Covid

Tuttavia, dopo la spinta imposta dalla pandemia, il ritorno alla presenza sta emergendo come una tendenza  diffusa perché alimentata da esigenze di controllo, produttività e rafforzamento di una certa cultura aziendale. Lo smart working, infatti, sembra sotto attacco: molte aziende stanno invertendo la rotta, richiamando i dipendenti in ufficio.

Non mancano esempi recenti, tra questi l’Atac e l’Ama. Nell’azienda dei trasporti, scrive Roma Today, «i mille dipendenti amministrativi che inizialmente lavoravano in smart working per due giorni a settimana ora possono farlo solo per uno. In Ama, invece, solo 400 dei 900 impiegati hanno avuto accesso a due giorni di smart working settimanali, ma attualmente la regola prevede un solo giorno a settimana da remoto. Inoltre, nella municipalizzata che gestisce i rifiuti, il lavoro da remoto non è consentito nelle settimane in cui cade una festività o si usufruisce di un giorno di ferie».

Smart working come strumento per il ripopolamento dei piccoli comuni

Tuttavia, nonostante la tendenza al ritorno in ufficio fuori e dentro l’Italia, non mancano iniziative volte a incentivare lo smart working. Un esempio concreto è la proposta di legge regionale presentata dalla provincia di Viterbo, che mira a sostenere le imprese che adottano il lavoro agile. L’obiettivo, afferma il consigliere regionale Marco Colarossi, è quello di «favorire il ripopolamento dei piccoli comuni del Lazio, nonché contrastare lo spopolamento» (Fonte: On Tuscia).

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Affinché questa visione si traduca in un cambiamento tangibile, è fondamentale che sia accompagnata da un adeguato potenziamento dei servizi sul territorio. La diffusione dello smart working, infatti, non può prescindere da un miglioramento delle infrastrutture, a partire dai trasporti pubblici fino ai servizi sanitari e culturali. Investire su queste strutture significa garantire un equilibrio tra la flessibilità lavorativa e la qualità della vita, evitando che il lavoro da remoto si trasformi in un isolamento forzato o in una penalizzazione per chi sceglie di non vivere nelle grandi città.



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