L’agenda Draghi e quell’aiuto inaspettato


Quando nell’autunno dello scorso anno Mario Draghi presentò il suo celebre rapporto sul futuro della competitività europea, la domanda ricorrente era quanto di quell’agenda l’Europa avrebbe saputo realizzare. Pochi mesi dopo, il cambio di paradigma radicale che arriva dall’altro lato dell’Atlantico sta indubbiamente aiutando le istituzioni europee e le capitali nazionali a trovare il consenso politico per concretizzare quelle proposte intorno a tre assi principali: colmare il divario di innovazione; promuovere una decarbonizzazione competitiva; e ridurre le dipendenze strategiche, investendo su una propria, autonoma sicurezza. Sul fronte dell’innovazione, dobbiamo recuperare il ritardo digitale rispetto USA e Cina, mentre abbiamo posizioni di leadership nelle tecnologie verdi, che però occorre mantenere. Per farlo, occorre aumentare gli investimenti che però, data la loro natura innovativa, tendenzialmente non potranno essere finanziati dalle banche, di cui l’Unione è ricca, ma dal capitale di rischio, che in UE risulta frammentato a livello nazionale. Il rapporto Draghi raccomanda di procedere risolutamente con il progetto di unione del mercato europeo dei capitali rimuovendo gli ostacoli normativi per cui, ad esempio, un fondo di private equity tedesco oggi non riesce a raccogliere capitali in Olanda per investirli in medie imprese italiane.

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La proposta della Commissione

A questo scopo, da pochi giorni è sul tavolo una proposta della Commissione, concretizzata in un ‘pacchetto’ di direttive di armonizzazione insieme all’introduzione di un 28° regime giuridico armonizzato a livello comunitario per le nuove start-up innovative europee, che soprassieda ai troppo diversi sistemi dei 27. Se questi sviluppi legislativi consolideranno il lato dell’offerta di capitali europei, sarà altresì importante fare in modo che i risparmi così canalizzati possano arrivare su settori continentali integrati a livello comunitario: se la dimensione dei singoli investimenti resta nazionale, in particolare nel settore dei servizi, le basse economie di scala conseguenti riducono il ritorno dell’investimento in Europa, privilegiando mercati alternativi, a partire dagli USA. Dobbiamo accelerare anche sulla progressiva apertura di mercati ancora troppo locali (energia, trasporti, tlc, difesa, aerospazio), se vogliamo evitare il rischio di realizzare un mercato unico dei capitali a servizio dell’innovazione americana.

Il costo delle fonti energetiche

Un altro aspetto cruciale per la competitività europea è il costo e l’accesso alle fonti energetiche. Sotto l’aspetto geopolitico è ormai chiaro che l’Europa deve aumentare di molto la sua capacità di produrre autonomamente energia, ma deve anche farlo con una modalità che garantisca costi per le sue imprese comparabili ai competitors americani. Su questo fronte, la parola chiave è decarbonizzazione, almeno per quanto attiene la generazione di energia elettrica. A questo proposito l’agenda al 2030 prevede un investimento in solare ed eolico già autorizzato che porterà l’energy mix complessivo da queste fonti intorno al 50% in media, con una progressiva eliminazione nell’uso del carbone. Un altro 30% del mix energetico europeo al 2030 sarà composto da biomassa, idroelettrico e nucleare, portando dunque l’indipendenza europea vicina all’80%, mentre il restante 20% di fonte energetica sarà rappresentato ancora da gas. Questo mix energetico garantisce prezzi dell’energia competitivi, a condizione di riformare i mercati elettrici nazionali per scollegare il prezzo dell’energia da quello del gas, riducendo gli extra-profitti dei produttori. Sarà altresì importante potenziare le connessioni elettriche tra i paesi membri, garantendo una rete energetica integrata e resiliente, che favorirà la convergenza dei prezzi dell’elettricità tra paesi europei, ancora troppo eterogenei.

La sicurezza

L’ultimo pilastro su cui poggia la futura competitività europea è la sicurezza, su cui si sono registrate accelerazioni importanti. L’uso di strumenti finanziari comunitari per sostenere la spesa militare, insieme allo scorporo della stessa dal calcolo del deficit sono sviluppi utili, ma che devono essere riletti in un’ottica di competitività. Dunque, sempre in linea con il rapporto Draghi, l’investimento per la sicurezza deve essere canalizzato ex-ante sullo sviluppo di progetti comuni che prevedano l’armonizzazione degli standard militari e il coinvolgimento massiccio del settore privato, che potrà così riconvertire parte della sua capacità produttiva. Senza questi accorgimenti si rischia di avere una spesa inefficiente, magari con effetti di significativa sostituzione della spesa per il welfare. A quel punto tutta l’Europa si troverebbe a dover gestire un problema politico di non facile soluzione.

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