Un’esigenza imperativa perché l’economia europea acquisti una dimensione mondiale, mentre quasi 500 miliardi annuali di risparmi europei preferisce gli investimenti statunitensi. Dieci anni di flop europei
Da un mese è cominciata a Bruxelles la produzione di nuovi piani d’azione con cui la Commissione von der Leyen 2 intende sia rispondere alle nuove sfide dell’Amministrazione Trump, sia correggere gli errori compiuti dalla commissione precedente, la von der Leyen 1. Ovviamente l’espressione “correggere” non risuona mai, ma la sostanza è quella: dal Green deal al Fit for 55, da Ets a Cbam, passando per le innumerevoli direttive sulla rendicontazione d’impresa e degli input di produzione, la protesta in Europa di imprese e governi è diventata fortissima nel 2024.
Il bilancio delle prime settimane è impietoso. Sulla difesa comune, sia i programmi annunciati all’inizio dalla von der Leyen sia quello per l’Ucraina di Kaja Kallas non hanno retto alle obiezioni dei governi e si sono molto rimpannucciati. Dalla Bussola Competitività al Clean Industrial Deal all’Action Plan per l’auto e a quello per acciaio e metalli, le industrie europee sono rimaste deluse perché spesso vi si affermano princìpi nuovi, ma manca il coraggio di interventi radicali. Ultima arrivata è la proposta per la creazione di una vera unione dei risparmi e degli investimenti, la nuova definizione che dopo i rapporti Competitività di Draghi e Letta è stata data alla grande incompiuta dell’ultimo decennio, cioè l’Unione dei capitali, che nell’Europa dei 27 doveva affiancarsi a una vera unione bancaria nell’Euroarea. Per la verità non si tratta ancora di un piano, ma di una serie di anticipazioni che sono state date ai media europei da parte della commissaria agli Affari finanziari Maria Luis Albuquerque. Su queste colonne si preferisce sempre puntare all’ottimismo piuttosto che alle lagne: in questo caso sulla speranza che i governi europei vogliano davvero capire che il mercato unico dei capitali è un’esigenza imperativa, se vogliamo davvero acquisire una dimensione mondiale. Dunque proviamo a spiegare il fallimento sin qui del progetto, se vogliamo sperare che la Savings and Investment Union abbia miglior esito.
L’obiettivo nacque nel 2014, quando a presiedere la Commissione Ue era Jean-Claude Juncker, e la proposta nacque sotto il segno dell’emergenza. Alla Camera dei Comuni del Regno Unito si era messa in moto la macchina per la richiesta di un referendum volto all’uscita dalla Ue, e David Cameron aveva approvato l’iniziativa facendola propria. Ergo l’Unione europea doveva correre ai ripari, perché la forza del Regno Unito nella Ue era innanzitutto rappresentata dai suoi mercati finanziari. Sulle proposte tecniche, lavorarono poi negli anni successivi con appositi documenti tecnici l’italiano Tommaso Padoa-Schioppa e il francese Jacques de Larosière, e intanto nel 2016 la Brexit avveniva, con un tempo di piena attuazione che durò fino al 2020. Nei rapporti di Padoa-Schioppa e de Laroisière si trovano in realtà le stesse considerazioni alla base dell’analogo capitolo dedicato a questo tema nel Rapporto Draghi, con la differenza che i numeri sono nel frattempo molto peggiorati, a sfavore dei risparmiatori e delle imprese europee. Peggioramento culminato poi negli ultimi due anni di frenata del pil europeo e di crisi dell’industria europea: la bilancia dei pagamenti Ue-Usa del 2024 mostra infatti che i 330 miliardi annuali di risparmi europei che hanno preferito investimenti statunitensi, cifra citata nel Rapporto Draghi e da allora ripetuta da tutti, sono arrivati a sfiorare l’anno scorso l’ammontare di 500 miliardi.
Il motivo della preferenza è presto detto: non solo i capitali europei cercano la miglior remuneratività degli impieghi statunitensi, ma si avvantaggiano dei benefici di un corpo unico di regolazioni fiscali, prudenziali e di vigilanza, nonché di un unico codice delle insolvenze d’impresa, invece di dover fare i conti con la babele persistente dei 27 ordinamenti europei. E’ su questo fronte che il mercato unico europeo dei capitali si è arenato. I governi dei paesi membri non hanno mai voluto fare un vero passo indietro rispetto alla segmentazione delle vigilanze nazionali, né sui diversi regimi fiscali. Nessuno ha voluto rinunciare ad aliquote e imponibili differenziati sui redditi da capitale, nessuno ha creduto fosse venuta l’ora di un solo regime di agevolazione agli investimenti, invece di poterli rimodulare a seconda delle esigenze di finanza pubblica in ogni diversa legge nazionale di bilancio. Nessuno ha accolto l’idea di un regime unitario per la tassazione dei fondi previdenziali privati complementari (l’Italia è l’unica che continua a tassarli sul maturato teorico annuale, invece che al momento dell’incasso della pensione) con la conseguenza che nel mercato europeo i fondi previdenziali attivi nel capitale delle imprese quotate sono quelli statunitensi o il fondo sovrano norvegese che vive dei proventi del gas del mare del Nord, non i fondi pensione europei che non sono mai riusciti ad acquisire una taglia finanziaria tale da renderli operatori primari nel mercato dei capitali, come da sempre avviene nei paesi anglosassoni.
A ogni continuo rilancio della proposta da parte delle Commissioni europee susseguitesi, si pensò a sperimentare almeno qualche innovazione. Un esempio è quello dell’Esap, l’European Single Market Access Point sul quale avviare il matching capitali-imprese con regole comuni. Ma l’ultimo rinvio lo prevedeva non prima della fine del 2027. L’impegno europeista non è stato del tutto sterile, sono nate nel tempo autorità europee come l’Esma sui mercati finanziari, come l’Eiopa che è l’autorità europea sulla previdenza complementare privata. Ma gli stati difesero anche in quelle occasioni le loro puntute prerogative. L’Esma per composizione è un’emanazione delle diverse Consob nazionali, e al suo interno pesano innanzitutto le voci di francesi e tedeschi: non è mai stata l’equivalente di una Sec europea, cioè un vero organo di vigilanza sia prudenziale sia di gestione, dotato di un corpo di norme proprie, indipendente dalla politica e dotato di forti poteri d’intervento immediato sulle operazioni e sulle crisi finanziarie in corso. L’Euroarea muoveva invece passi più efficaci, grazie al fatto che nell’eurosistema a decidere erano le banche centrali appartenenti al sistema Bce, non i governi. Tra il 2012 e il 2014 nasceva così il Single Supervisory Mechanism (Ssm) per la vigilanza sulle banche di taglia medio-grande soggette a regole comuni. E dall’Ssm nacque poi il Single Resolution Board, comitato tecnico ristretto in capo al quale fu posto l’intervento diretto nei casi di crisi, discontinuità o insolvenza bancaria.
Ma quando poi nacquero regole comuni per il risk sharing nei casi di crisi, con la possibilità del bail-in che chiamava alla compartecipazione delle perdite anche i titolari di obbligazioni bancarie più esposte al rischio, ecco che le polemiche nazionali esplosero. E in prima fila ci fu proprio l’Italia e la stessa Banca d’Italia, con l’allora governatore persuaso che il modello da seguire fosse un altro. E così anche la Banking Unione si è infatti bloccata. Con i tedeschi chiusi nella difesa delle loro troppo piccole banche locali ad alto tasso di politicizzazione e non sottoposte a vigilanza comune, e l’Italia pronta a dire no all’ingresso nel nostro mercato del risparmio di qualunque gruppo bancario europeo perché “il risparmio degli italiani non si tocca”: di qui il ruolo che sta giocando il governo nel risiko bancario in corso, con tutti i protagonisti a far la fila a Palazzo Chigi promettendo che se vince la loro offerta si sottoscriveranno coi denari dei loro clienti ancor più titoli pubblici dell’indebitatissima Italia.
La regolazione nazionale cela enormi conflitti d’interesse: non solo la sopravvivenza dei regolatori nazionali, ma la volontà della politica di avere l’ultima parola su operazioni transfrontaliere, oltre agli enormi profitti che le reti di gestione del risparmio incassano praticando ai clienti oneri di gestione sulle linee di prodotti che diventano una vera messe predatoria. Per dirne una: per Eurostat sono oltre 10 mila miliardi di euro i risparmi dei cittadini europei giacenti in conti bancari e di liquidità a bassissima remunerazione. In Italia la ricchezza finanziaria delle famiglie è stimata da Bankitalia in 5.500 miliardi, e di questi 1.400 miliardi (stime Abi di fine febbraio) sono in conti bancari la cui remunerazione media è dello 0,8 per cento annuo. Altro che il 65 per cento di partecipazione delle famiglie americane al mercato azionario…
Di fronte a questo servirebbe una Commissione Ue che puntasse senza timore l’indice accusatorio. Se vogliamo che 500 miliardi di risorse europee non si spostino in America ogni anno, allora governi e regolatori devono accettare che nasca un’unica Sec come negli Usa, un unico codice della finanza e delle insolvenze d’impresa, di regole fiscali e di vigilanza. Questo coraggio nelle anticipazioni della Albuquerque ancora non c’è. E in Italia si lavora su nuove norme finanziarie e di voto nelle società che non fanno altro che allontanarci dalle buone pratiche occidentali. C’è un unico soggetto che dovrebbe muoversi come un caterpillar, per il mercato unico dei capitali: le imprese e le Confindustrie europee. Vittime sacrificali dell’impossibilità di accedere a capitali di rischio all’altezza delle sfide mondiali che devono sostenere. Lo faranno gli imprenditori, o si accoderanno a difesa dei governi nazionali per qualche spicciolo di incentivi in più?
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