Piano d’azione per l’export italiano


Piano d’azione per l’export italiano nei mercati extra-UE ad alto potenziale: 700 mld entro 2025, superando dazi e crisi con strategia.

Export italiano: il contesto e l’obiettivo

Villa Madama, 21 marzo 2025. Non è un giorno qualunque per chi crede che l’Italia possa ancora giocarsela sul tavolo del commercio globale.

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Antonio Tajani, vicepremier e ministro degli Esteri, ha messo in piedi un incontro che non è solo una passerella di buone intenzioni, ma una mappa per portare l’export italiano a 700 miliardi di euro dai 630 del 2024, entro la fine dell’anno.

Obiettivo ambizioso? Certo. Soprattutto alla luce di una situazione internazionale che sembra sempre più aggrovigliarsi, le cui ripercussioni sono inevitabilmente anche economiche, soprattutto per quei Paesi, come l’Italia, che vivono di export.

Impossibile? Neanche per sogno, se si guarda il “Piano d’azione per l’export nei mercati extraeuropei” con gli occhi di chi sa che le crisi non sono solo inciampi, ma trampolini.

Il contesto non è dei più rosei.

La Germania arranca con l’automotive (il nord-est d’Italia che vive di riflesso ne sa qualcosa), la Cina frena (-20% a gennaio), e dall’altra parte dell’Atlantico Trump agita lo spettro di dazi al 200% che potrebbero colpire il nostro vino, i formaggi, l’olio – tutto quel made in Italy che gli americani adorano ma che potrebbero presto permettersi meno.

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Il Presidente Trump è un uomo di business e ormai abbiamo visto come alterni bastone e carota, alteri storytelling di fatti ed eventi a seconda dell’esigenza del momento, con una velocità e una non curanza che lasciano spesso increduli.

Questo non può non creare disorientamento e chi ha responsabilità non può che far proprio il motto “prepararsi al peggio, sperando il meglio”.

Come non bastasse: aggiungiamoci il Mar Rosso in tempesta, il Medio Oriente nel pieno di un delirio di massa, i Balcani che tornano ad essere una polveriera, il gas americano che costa tre volte quello russo e un’Europa che deve decidere se rispondere agli USA con prudenza o con una guerra commerciale che nessuno vuole davvero. Insomma, ce ne è per tutti i gusti.

Eppure, Tajani non si limita a parare i colpi: il suo piano è un’offensiva, non una difesa. “Nessun panico” ma strategia ed azione.

La strategia: guardare oltre i soliti mercati

Partiamo dai numeri. Nel 2024 l’export italiano ha chiuso a 626 miliardi, un calo dello 0,4% rispetto all’anno prima, ma con settori come l’agroalimentare (+8%) e il farmaceutico che tirano la carretta.

L’idea è chiara: se i mercati tradizionali – USA ed Europa – traballano, non si sta con le mani in mano a piangere sul latte versato.

Si guarda altrove: Turchia, Cina, Emirati Arabi, Messico, India, Brasile, Sudafrica, Algeria, fino ai Balcani e all’Asia centrale.

Non è una lista a caso: sono mercati emergenti o maturi dove l’Italia può fare la differenza, con tassi di crescita dell’export già promettenti (Balcani +13,4%, ASEAN +10,3%).

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Ma non è solo questione di geografia.

Diplomazia della crescita

Il piano punta a una “diplomazia della crescita”, che non significa solo belle parole in smoking alle conferenze internazionali.

Tajani vuole trasformare il Ministero degli Esteri in un dicastero a due teste – politica ed economica – e le ambasciate in basi operative per le imprese. “Trampolini di lancio”, le ha chiamate.

Idea questa che fu già di Silvio Berlusconi nel lontano ’94, a sua volta ripresa dal modello francese, straordinariamente efficace ed efficiente in tema di supporto e accompagnamento alle aziende, anche e forse soprattutto nell’export.

E per chi teme di essere lasciato solo, c’è un numero di cellulare (349 0929 568) e un’e-mail (exportesteri.it) già attivi per un pronto intervento export.

Atti concreti, non promesse da campagna elettorale.

Gli strumenti: quel mix di pubblico e privato

Qui entra in gioco il sistema Italia, quel mix di pubblico e privato che, quando funziona, fa paura a tutti.

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ICE, SACE, SIMEST e Cassa Depositi e Prestiti (CDP) non sono solo sigle: sono il motore del piano.

  • ICE schiera 40 uffici in questi mercati strategici, con 118 padiglioni fieristici e 253 iniziative promozionali già in cantiere per il 2025.
  • SIMEST mette sul piatto un miliardo di euro, con misure innovative come l’equity pubblico per le PMI e finanziamenti per filiere energetiche e infrastrutturali, dall’America Latina al Vietnam.
  • SACE offre garanzie e liquidità per 31 miliardi di operazioni export solo quest’anno, generando 60 miliardi di fatturato, e punta a coprire rischi in 200 paesi.
  • CDP chiude il cerchio con 3 miliardi per grandi acquirenti internazionali e 500 milioni per l’Africa del Piano Mattei.

Non è solo una questione di soldi.

È un cambio di mentalità presente già da anni e che adesso pare intensificarsi: accompagnare le imprese – soprattutto le piccole, che spesso si sentono sole – non solo con finanziamenti, ma con formazione, matching con buyer esteri, e soluzioni per aggirare barriere sanitarie o logistiche.

Pensate all’Africa: un continente che importa cibo e ha fame di tecnologie agricole italiane. O al Golfo Persico, dove il deperibile italiano potrebbe decollare se solo Gioia Tauro diventasse un hub per i container refrigerati.

Superare le strettoie, saltare gli ostacoli.

Il vero colpo di genio del piano è non fermarsi a tamponare l’emergenza dazi o la crisi geopolitica.

Tajani lo dice chiaro: “Il modo peggiore per affrontare un’emergenza è farsi prendere dal panico”. E allora si negozia con gli USA – ieri un altro incontro con il commissario europeo Šefčovič per scongiurare una guerra commerciale – ma si investe anche lì, per bilanciare la bilancia commerciale e rendere i dazi meno appetibili per Trump.

Si punta sulla reciprocità negli accordi, come chiede Coldiretti per l’agroalimentare, e si scommette su mercati lontani ma affamati di qualità italiana, come sottolinea Filiera Italia per Corea e Filippine.

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Le imprese, dal canto loro, non stanno a guardare. Confindustria spinge su innovazione e fiere, Confartigianato chiede semplificazione per le PMI, la Federazione del Mare invoca un’Italia piattaforma logistica del Mediterraneo (con un gap da 96 miliardi da colmare).

E poi c’è l’agroalimentare, che da solo potrebbe passare da 70 a 100 miliardi entro il 2030, se solo si superassero storture come l’italian sounding.

C’è un articolo al riguardo che invito a leggere se si è interessati: “L’italian sounding si può stroncare

Internazionalizzare non è delocalizzare

Nel Piano d’azione per l’export italiano, internazionalizzazione e delocalizzazione emergono come due facce opposte della stessa medaglia: la prima è il motore, la seconda un’ombra da tenere a bada.

Antonio Tajani lo dice senza giri di parole: l’obiettivo è spingere le imprese a conquistare mercati extraeuropei – Turchia, Cina, India – con una “diplomazia della crescita” che trasforma ambasciate in avamposti operativi, senza però cedere alla delocalizzazione.

Non si tratta di spostare la produzione altrove, ma di farla brillare da qui, con SIMEST che offre equity per le PMI e SACE che apre porte a buyer esteri.

Luigi Scordamaglia (Amministratore Delegato di Filiera Italia) lo ribadisce: negli USA si può confezionare, non produrre, per schivare i dazi senza snaturare il made in Italy. È una strategia che non fugge dalle difficoltà, ma le affronta radicata in casa, mirando a quei 700 miliardi di euro di export con i piedi ben piantati in Italia.

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Personalmente, vedo il Piano d’azione per l’export come un passo deciso, ma non esaustivo.

Tajani scommette sull’internazionalizzazione, trasformando ambasciate in hub per l’export e armando le imprese con strumenti come SIMEST e SACE per toccare i 700 miliardi senza delocalizzare.

È una linea nobile, radicata nell’orgoglio del made in Italy. Eppure, il mercato americano – che vale 7,8 miliardi solo per l’agroalimentare – ci insegna che a volte cavalcare il cambiamento significa anche osare di più: non solo esportare o confezionare lì, ma delocalizzare strategicamente pezzi di produzione per schivare dazi, abbattere i costi di trasporto, usufruire degli incentivi e accorciare le distanze (Perché il Made in Italy delocalizza negli Stati Uniti).

Gli utili sono troppo importanti e parte di essi possono essere comunque stornati verso la casa madre, a seconda di quelle che sono le strategie e necessità aziendali. Modello Unicredit* che genera oltre il 50% dei suoi 9,31 miliardi di utili all’estero, con parte rimpatriata per rafforzare l’Italia.

Non è una resa, ma un’astuzia: il cuore resta in Italia, il braccio si allunga dove serve. Gli USA del 2025, con o senza Trump, sono un’opportunità troppo grande per giocarla solo da casa.

Una sfida da vincere insieme

Non sarà una passeggiata. I rischi ci sono: tempi incerti, costi energetici, infrastrutture che arrancano.

Ma il piano non è un libro dei sogni: è una scommessa su quello che l’Italia sa fare meglio, dalla varietà merceologica alla capacità di saltare gli ostacoli, come dice Tajani, “non di fermarsi davanti”.

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È un invito alle imprese – grandi, piccole, piccolissime – a non innamorarsi di un solo mercato, come ricorda Unione Italiana Vini, ma a guardare lontano, a valutare possibilità e azioni diverse. Quello che fino a ieri mai avrei pensato di suggerire e fare, oggi, se fatto in maniera strategica, può rivelarsi un’opportunità e probabilmente una strada obbligata.

Con un governo che, per una volta, sembra voler fare sul serio e con un sistema paese che, se gioca unito, può trasformare le strettoie di oggi nei viali di domani.



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