Il green da sogno a incubo, i nostri laureati fregati dal ciclone Trump


L’ultimo addio alla finanza green è stato firmato dal JpMorgan asset management: il 21 marzo scorso, l’unità di gestione patrimoniale dell’istituto bancario statunitense ha abbandonato la Nzam, Net Zero asset manager initiative, coalizione globale per gli investimenti green.

Una decisione annunciata da gennaio, quando anche Goldman Sachs, Morgan Stanley e Blackrock hanno ritrattato l’adesione alla Nzam. L’alleanza per l’industria verde era nata contando su asset dal valore totale di 57,5 trilioni di dollari gestiti da 325 firmatari, caduti alla velocità di un domino con l’arrivo di Donald Trump.

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Addio alla finanza green

Se la posizione degli Usa ora è chiara, quella europea non lo è. Due gli esempi evidenti: da un lato la European securities and markets authority (Esma) continua la sua politica anti-greenwashing obbligando i gestori a rinominare gli asset non verdi (a marzo, solo per Blackrock 56 fondi hanno fatto sparire il termine «sostenibilità» dal nome per rispondere all’Esma).

Dall’altro, la Commissione europea rivede al ribasso la direttiva per l’analisi della sostenibilità delle società, ovvero la Corporate sustainability reporting directive (Csrd), che imponeva alle imprese la rendicontazione Esg, relativa agli aspetti ambientali, sociali e di governance di un’azienda. Se il pacchetto Omnibus presentato il 26 febbraio verrà approvato in Parlamento, l’80 per cento delle società prima soggette alla Csrd sarà esentato da ogni vincolo.

Secondo la direttiva attuale, dal 2026 sono soggette a redigere il bilancio di sostenibilità le aziende con almeno due di tre parametri: più di 250 dipendenti, uno stato patrimoniale di oltre 25 milioni, un fatturato superiore ai 50 milioni. Con la modifica del pacchetto Omnibus invece sarebbero vincolate a presentarlo soltanto le compagnie con oltre mille lavoratori. Formalmente, le modifiche alla Csrd sono state proposte per semplificare le procedure e alleggerire le società, ma di fatto sancirebbero un liberi tutti.

Azzardo sostenibilità

«Tra i laureati della mia generazione percepisco preoccupazione e smarrimento – dice Michele Martinello, 29 anni, laureato in Ingegneria fisica e specialista in Esg per un grosso gruppo – Avevamo visto nella sostenibilità il sentimento europeo di voler portare valori comuni nel tessuto produttivo, ma anche un settore in cui costruire la nostra carriera. Ora sembra che l’Ue faccia finta di non vedere che c’è un intero settore di mercato con migliaia di giovani che si sono formati su questo tema, che rischia di sciogliersi come neve al sole».

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Secondo i dati Almalaurea, nel 2022 erano 136.379 i laureati con almeno una materia legata alla sostenibilità ambientale nel percorso di studi, il 61,5 per cento del totale analizzato (un campione di 222mila laureati, il 78,9 per cento del totale). Stando all’ultimo Green skills report, l’8,27 per cento delle offerte di lavoro su LinkedIn in Italia ha riguardato professioni green nel 2024, contro il 7,7 per cento registrato a livello mondiale.

Rendicontazione; consulenza strategica sugli Esg; trasformazione dei processi produttivi sono tre dei principali ambiti in cui sono stati impiegati i lavoratori green, progettando da zero i metodi per quantificare la sostenibilità e facendo master su master per dare un apporto credibile.

«Chi ha intrapreso questo percorso anche solo due anni fa, oggi non ha nessuna certezza di farcela – spiega Fabiana Caiazzo, 31 anni, giurista e ora Esg reporting specialist in una grossa azienda – Ho cambiato la mia vita privata e professionale per lavorare in questo settore, lasciando la mia città e investendo molto economicamente con il supporto della mia famiglia. Penso a tutti quelli come me, magari a inizio carriera, che si ritrovano a mettere in discussione una scelta esistenziale».

Il timore è soprattutto nei consulenti, il cui bisogno è cresciuto sia tra i liberi professionisti che nelle grosse società di reportistica, con uffici ad hoc sulla rendicontazione di sostenibilità.

«Le nostre divisioni erano in espansione perché le imprese ne avevano bisogno, per la rendicontazione Csrd e per adeguare i sistemi di produzione a un futuro green. Ora assistiamo al blocco dei progetti di assunzione e a un calo di richieste di consulenza», dice più di un professionista.

Investimento in fumo

Un master di sei mesi per specializzarsi in Sostenibilità costa in media tra i 14mila e i 20mila euro, a cui bisogna aggiungere le spese dei fuorisede, i tirocini, il tempo. «Ho dedicato anni a formarmi, credendo davvero di aiutare le aziende a intraprendere un percorso verso la decarbonizzazione, e tuttora ne sono convinta», spiega Silvia Checola, 32 anni, consulente specializzata in Sostenibilità per un grosso gruppo. Sono tutti giovani che hanno iniziato a farsi le ossa tra il 2019 e il 2020, costruendo una professionalità riconosciuta e che oggi vedono sgretolarsi la missione di cui l’Ue aveva chiesto loro di diventare ambasciatori.

«Abbiamo investito tempo e risorse per fare in modo che la rendicontazione sostenibile diventasse un documento ricco di contenuti – racconta Giovanni Luigi Venezia, 32 anni, specializzatosi in Sostenibilità dopo una laurea in Filosofia –. Ora si può davvero misurare quanto un’azienda controlli emissioni e filiera, ma con l’approvazione del pacchetto Omnibus molte imprese abbandoneranno gli impegni e bacini di professionisti dovranno reinventarsi».

Green hushing

Nel frattempo l’Oriente, Cina in testa, sta portando avanti una strategia opposta a quella europea. «Viviamo la teoria della grande divergenza – spiega Filippo Addarii, imprenditore e advisor in impact investing, docente all’Ucl Institute of Finance and Technology – l’Asia continua a investire nella Green economy, mentre gli Stati Uniti tornano sul modello che li ha resi una potenza mondiale, quello dell’industria petrolifera e delle fonti fossili».

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Sospesa tra i due blocchi di ferro, l’Europa si comporta da vaso di coccio parlando il meno possibile di Green deal. «È un aggiustamento strategico – dice Addarii – l’Ue continua a investire nel Cleantech, ma deve evitare di entrare in conflitto con gli Usa». Gli effetti si vedono nel marketing.

Ora le aziende si vergognano di dire che sostengono il green e preferiscono non pubblicizzarlo, si parla così di green hushing, silenzio verde, l’opposto del green washing. «Il concetto di green hushing fa riferimento all’idea di “accountability” – spiega Addarii –. Le affermazioni di una società, specie quotata, sui propri obiettivi possono essere price sensitive. Quindi una compagnia può stabilire dei target di sostenibilità e decidere di non promuoverli per non esporsi al rischio di apparire poco affidabile».

A partire dalla campagna elettorale statunitense la tendenza al green hushing sta prevalendo non per ragioni aziendali ma per non andare in direzione contraria al vento politico. Già secondo l’ultimo rapporto annuale Net Zero della società di consulenza South Pole, che si basa su interviste a 1.400 top manager, il 58 per cento dei ceo intendeva diminuire il livello di comunicazioni esterne sulla sostenibilità. Questo anche se l’81 per cento dei ceo affermava che parlare di sostenibilità aumenta i profitti. Dall’insediamento di Trump gli effetti si vedono su tutto ciò che è disallineato alla sua propaganda.

«Negli ultimi tempi anche l’impatto sociale è divenuto oggetto di attacchi politici – dice Addarii –, personalmente lo chiamo “social hushing”. Capita cioè che alcuni investitori chiedano di eliminare le parole “green, climate, social” dai titoli dei convegni o dalle iniziative finanziarie, anche se poi materialmente continuano la loro azione sostenibile».

L’auspicio è che invece l’Europa non faccia dietrofront sulla sostenibilità. Martedì gli eurodeputati valuteranno le modifiche d’urgenza alla Csrd, che potrebbe essere ai voti già giovedì.

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