Revisione del TUEL e “coesione” – Associazione Segretari Comunali e Provinciali


Tratto da: Rivista di diritto ed economia dei Comuni  

Autore: Daniele Donati

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Che sia tempo di porre mano a una riforma degli enti locali, nessuno, in nessun ambiente (politico, istituzionale, tecnico, accademico), oramai dubita più. Incentrata su un Testo unico concepito e approvato 25 anni fa, prima della riforma costituzionale del 2001, e poi – a più tratti emendato, accomodato, modificato in modo anche profondo: (si pensi per tutti alla legge 7 aprile 2014, n. 56, con la radicale trasformazione delle province e l’istituzione delle città metropolitane), l’attuale disciplina mostra i segni di un invecchiamento neanche precoce. Forse accelerata dall’impatto della pandemia del 20/21, che ancora lascia segni visibili in molte decisioni delle nostre amministrazioni locali, e poi del PNRR che arriva a stressare le capacità di pianificazione e spesa di molte realtà locali (col serio rischio di farne un’altra – e in questo caso esiziale occasione perduta), l’obsolescenza del quadro e direi dello spirito stesso che animava quelle norme appare oramai evidente e per certi versi insostenibile.
A ben vedere non sono mancati, nelle scorse legislature, tentativi anche ben motivati e orchestrati: si pensi, per tutti, a come fin dalla XVI legislatura si iniziò l’esamedi un disegno di legge che prevedeva la delega al Governo per l’ adozione di una vera e propria «Carta delle autonomie locali», in cui si intendevano riunire e coordinare sistematicamente le disposizioni statali relative agli enti locali.
Eppure, questo e tutti i tentativi seguenti sono andati falliti. Ed è quindi opportuno iniziare a ragionare – finché questa legislatura ha spazio e forza per realizzare una riforma così attesa – sulle patologie che hanno causato questi ripetuti insuccessi. Di sicuro è evidente come, a questo punto, a guidare la mano del legislatore non possa essere l’intento di perseguire solo il coordinamento e la limatura formale delle norme sedimentatesi nel tempo, come candidamente si confessava in molte delle occasioni precedenti. Non serve, e anzi è decisamente controproducente, a questo punto, una logica di riforma “minima”, che non tarderebbe a rivelarsi miope, di corto respiro.
Altrettanto controproducente sarebbe continuare a muoversi per interventi disordinati, microchirurgici, rivolti a profili specifici, essendo proprio questi che hanno fatto del nostro ordinamento locale un mosaico a volte incoerente: penso in questo caso ai tentativi di stringere i tempi su una revisione della disciplina degli enti intermedi, quando la stessa richiede – evidentemente – una riflessione complessiva sul ruolo e quindi sulle competenze assegnate a ciascun livello del governo locale.
Si profila così l’importanza di muovere verso una revisione complessiva e unitaria del TUEL, in un confronto costante con i diversi attori coinvolti, a partire dai soggetti rappresentativi delle diverse realtà territoriali, evitando atteggiamenti rivendicativi o antagonisti tra questi, francamente sterili. E avendo in mente – questo è a mio giudizio il punto cruciale dell’intero processo, su cui intendo soffermarmi – un’ “idea forte” e condivisa in base alla quale procedere. Una simile impostazione era ben evidente nella stagione degli anni ’90, prolifica di riforme che hanno cambiato significativamente il nostro sistema, locale e non solo (e delle quali, come si è detto, oggi si dovrebbero ridiscutere diversi profili), quando ad animare i numerosi interventi che si succedevano era il dichiarato intento di fare della funzione amministrativa una funzione essenzialmente locale (Cassese). A voler trovare oggi un’analoga idea-guida, mi pare ci si debba rivolgere al valore della «coesione». Lo dico, consapevole dei fin troppo frequenti richiami nel lògos politico, ove viene diversamente aggettivata e raramente espressa in termini più puntuali, convinto che se ben compresa e declinata possa in effetti costituire la chiave di elaborazione prima e interpretazione poi di un ridisegno complessivo efficace e fertile dell’ordinamento locale.
Echi significativi, però, si hanno già in numerosi testi normativi. Ne sia prova, per tutti, il recente «Riordino della disciplina dei servizi pubblici locali di rilevanza economica» (decreto legislativo 23 dicembre 2022, n. 201) che, nell’attribuire allo Stato l’individuazione delle funzioni fondamentali di indirizzo, controllo e regolazione in materia (ai sensi della lett. p dell’art. 117, 2° comma, Cost.), si premura di specificare
come ciò debba avvenire al fine di assicurare appunto sia «l’ omogeneità dello sviluppo» che, appunto, «la coesione sociale e territoriale». Né scriviamo queste righe inconsapevoli del fatto che lo «Schema di disegno di legge recante delega al governo per la revisione delle leggi sull’ordinamento degli enti locali» presentato al Consiglio dei ministri il 7 agosto 2023, testo in base al quale il Governo sta conducendo i propri
confronti ed elaborando la propria proposta, si apre (art.1) affermando che detta legge «è volta a garantire la coesione sociale, territoriale e ordinamentale, nell’unità e indivisibilità della Repubblica».
È bene dunque far chiarezza su quale coesione si abbia in mente, visto che essa si pone – e virtuosamente – non solo come «l’anima e il cuore» del ddl (Ramajoli), ma prima ancora come chiave di interpretazione del sistema di governo multilivello che si va progettando.
Evocare l’esigenza di coesione significa ammettere finalmente l’esistenza di differenze intollerabili nel livello di sviluppo dei territori, elemento che a sua volta sollecita un’analisi attenta del profilo che si intende disegnare per dare consistenza e giusto ruolo a comuni, unioni di comuni, province e città metropolitane (e poi alle regioni stesse, in relazione al loro tessuto locale). A questo proposito, da tempo ho qualche perplessità sul continuo ricorso, nelle norme sull’ordinamento locale, al solo criterio demografico perché non credo che la consistenza della popolazione sia in sé stessa fattore determinante la capacità di un ente (così già Santi Romano nel 1908). Urge
piuttosto un’analisi della capacità amministrativa degli enti locali, del territorio e della sua geografia per ambiti funzionali piuttosto che stretto nella finzione dei confini amministrativi (Nigro) e della popolazione che vi abita.
Ben altri sono allora i fattori da considerare, in una ricostruzione – anche per aggregazione

– degli “ambiti ottimali” della mappa locale, laddove la migliore letteratura (non solo giuridica) sul tema consiglia di considerare e quindi amministrare considerando per i diversi territori – la loro omogeneità, avendo in mente complessi spaziali con caratteristiche analoghe sotto diversi punti di vista (tra cui sì la dimensione demografica, ma anche la densità e le caratteristiche economiche);
– la loro interdipendenza, ovvero gli scambi di persone, beni, flussi comunicativi che legano le diverse aree (si annoverano qui la pendolarità, le aree di gravitazione commerciale, industriale, del lavoro);
– la loro morfologia, ovvero la contiguità spaziale o l’appartenenza a medesimi sistemi di configurazione orografica o geografica in senso lato.
Prende corpo, in tal modo, quell’idea di territorialità positiva (Cabiddu, Endrici e Barbati) creatrice di valore se e in quanto capace di interconnessioni orizzontali e verticali, capace di superare l’attuale lettura in negativo, che al contrario si caratterizza per l’accento posto sui confini e i limiti, sull’autosufficienza di ogni ente, concepito come monade chiusa nel suo corredo competenziale. E si concretizza una lettura “multifattoriale” della coesione, territoriale, sociale ed economica che, sola, può farsi garanzia di crescita equilibrata e rispettosa delle vocazioni delle diverse comunità.

Insegna, in questo senso, l’evoluzione del concetto in sede europea, dove ha origine. L’esordio dell’espressione è nell’ordinamento prima della Comunità e poi dell’Unione europea, dove si è da subito evidenziato un «divario tra i livelli di sviluppo delle sue varie regioni». Da qui l’esigenza di interventi a favore di aree svantaggiate per ragioni economiche, di conformazione territoriale o demografiche. È in base a questa visione che si diede origine alla «politica degli investimenti», concretizzatasi fin dal Trattato di Roma del 1957 nell’introduzione del Fondo sociale europeo (FSE) e del Fondo europeo agricolo di orientamento e di garanzia (FEAOG) ai quali, a seguire, si aggiungono nel 1975 il Fondo europeo di sviluppo regionale (FESR)e nel 1994 il Fondo (appunto) di coesione. Originariamente incentrata solo sul profilo economico e i mercati, mirava non solo a «uno sviluppo armonioso dell’insieme dell’Unione» ma anche al suo consolidamento politico, venendo a tradursi in misure che promuovevano la crescita economica, la creazione di posti di lavoro, la competitività delle imprese, il tutto nella
convinzione che grazie a questi si sarebbero ridotte anche le disparità tra aree territoriali e, in ultima istanza e soprattutto, tra i cittadini. La previsione si rivelò erronea: la complessità alla base di quelle differenze era ben più articolata di quella che una loro lettura in chiave esclusivamente economica evidenziava e poteva contrastare, laddove ogni paese presentava, al confronto con gli altri e al suo interno, differenze sociali e strutturali insensibili a un intervento portato avanti soltanto con quegli strumenti.
È per queste ragioni che alla coesione economica si affianca quella sociale (art. 23 dell’Atto unico europeo del 1986 e Trattato di Maastricht del 1992) e poi quella territoriale (Trattato di Lisbona del 2007), a comporre le disposizioni di cui all’art. 130 e al Titolo XVIII («Coesione Economica, Sociale e Territoriale», con gli articoli da 174 a 178) del Trattato sul Funzionamento dell’Unione europea. E a farne un vero e proprio bene pubblico europeo, strettamente connaturato all’azione della UE.
Così, a una rinnovata consistenza delle risorse imputate ai Fondi europei (1/3 delle risorse previste nel bilancio UE), si accompagna una mutazione nei criteri adottati per la loro assegnazione (fattori di debolezza strutturale e sociale come la disoccupazione e la povertà diffusa, l’abbandono scolastico o la poca formazione, la piccola dimensione e la scarsa tenuta delle imprese, la mancanza di ricerca e innovazione, l’insufficienza delle infrastrutture). Il tutto, a culminare nel dispositivo di Ripresa e la Resilienza che, se pur ricade sugli stessi ambiti di intervento, presenta differenze evidenti, laddove i fondi per il Next Generation EU provengono da debito europeo “comune” e prevedono
interventi articolati su piani nazionali che si configurano come “contratti di performance” e non meri programmi di spesa.
Ne risulta il fatto – di assoluto rilievo per la riforma di cui qui discutiamo – che tutta la politica europea muove oggi nel solco degli obiettivi di collaborazione multilivello, di connessione e integrazione tra territori e di un rafforzamento della posizione regionale in materia. Per parte sua, il documento a sostegno dell’Obiettivo europeo “Un’Europa giusta”, promettendo nuove e prospettive di inclusione a tutti gli ambiti locali e ai cittadini Europei, invita i policy makers a promuovere modelli di sviluppo policentrici, capaci di valorizzare il ruolo dei diversi livelli di governo, liberando il potenziale dei territori, resi ora capaci di affrontare le difficoltà e gli ostacoli della
contemporaneità attraverso approcci cooperativi integrati. In altri termini, non è più tempo di “verticalità” autoreferenziali, o addirittura antagoniste. Nel documento si esprime quindi – coerentemente – l’obiettivo di promuovere la valorizzazione di aree funzionali alle quali partecipano città di dimensioni differenti, sancendo un approccio di una governance integrata multilivello, con ricadute in particolare sulle autonomie
regionale e locale, in dialogo con gruppi sociali differenti, le forze economiche e sindacali.
Coerentemente, The New Leipzig Charter, documento chiave per lo sviluppo urbano sostenibile in Europa, adottato dai Ministri competenti il 30 novembre 2020 durante la presidenza tedesca dell’Unione, evidenzia come le città debbano stabilire e attuare strategie di sviluppo urbano sostenibili e integrate in senso allargato, comprensivo delle rispettive aree funzionali e limitrofe, ovvero ambiti interconnessi dal punto di vista
spaziale ed economico. E ancora nella prospettiva della Politica di Coesione europea, l’Accordo di Lubiana,adottato il 26 novembre 2021 dai ministri dell’UE responsabili per le questioni urbane, ha avviato una nuova fase di sviluppo dell’Agenda Urbana Europea, all’interno del quale risalta una forte attenzione all’inclusione delle città di piccole e medie dimensioni finalizzata a renderle partecipi delle nuove forme di cooperazione multilivello.
Tutti questi orientamenti sono stati recepiti nella politica di coesione 2021-2027 in forza dell’obiettivo trasversale (OP) 5 “Un’ Europa più vicina ai cittadini”, con il quale si supportano strategie di investimento integrate attraverso l’individuazione di quelle aree territoriali rilevanti (es. città, aree rurali, aree metropolitane e aree funzionali) nelle quali la popolazione lavora e vive, e quindi si sposta quotidianamente. E ciò al punto che per il periodo il 2021-2027, ogni Stato membro ha dovuto riservare almeno l’8% del FESR a strategie di sviluppo locale di città di ogni dimensione e delle relative aree metropolitane e/o aree funzionali.
La valorizzazione di queste interconnessioni a livello Europeo è affrontata anche dal programma ESPON all’interno del Thematic Action Plan Governance of New Geographies. La ricerca si propone di indagare le aree funzionali come principio di programmazione della Politica di Coesione 2021-27 per quanto riguarda lo sviluppo territoriale integrato come delineato negli obiettivi dell’Iniziativa Urbana Europea. In questa ottica assumono rilevanza realtà che esulano dagli stretti confini amministrativi ma che possono essere legate da funzioni e sfide comuni da affrontare.
Ora, tornando a rivolgere l’attenzione al nostro ordinamento, buona parte della nostra dottrina sostiene che la coesione sia già, e a pieno titolo, un principio costituzionale. Nella nostra Carta il termine «coesione» è menzionato una volta, al comma 5 dell’art. 119, ove si prevede che «per promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale, per rimuovere gli squilibri economici e sociali, per favorire l’effettivo esercizio dei diritti della persona (…)», lo Stato possa destinare risorse aggiuntive ed effettuare interventi speciali «in favore di determinati Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni».
La previsione si riferisce a un intervento eccezionale, non organico o sistemico, ma diventa nei fatti il fondamento per la creazione dell’Agenzia per la coesione territoriale (art. 10 decreto-legge 31 agosto 2031, n. 101) per facilitare la cooperazione delle istituzioni e l’instaurazione di partnership tra i diversi soggetti per «eliminare il divario territoriale all’interno del Paese e rafforzare la capacità delle amministrazioni» territoriali. Di recente l’Agenzia è stata trasformata in Dipartimento della PdCM (artt. 50 e 51 decreto legge 2023, n. 13) «al fine di assicurare un più efficace perseguimento» delle finalità di cui all’articolo 119. 5 Cost. soprattutto per favorire l’integrazione tra le
politiche di coesione e il PNRR. Fin qui, al di là della formulazione testuale, ci si muove in un’idea tutta inter-istituzionale e finanziaria della coesione.
A ben vedere, è però facile vedere come la vera base su cui si basa il principio costituzionale della coesione sia l’art. 2 della Carta fondamentale ove richiede «l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale». È così che si giunge all’affermazione di un sistema necessariamente solidale orientato a una coesione tra individui che diviene elemento caratterizzante le dinamiche interne alle
collettività e anche della relazione istituzioni, pur non senza travagli interpretativi e, soprattutto, applicativi, relativi al ruolo e alle forme del loro impegno.
Se nella prima redazione dell’art. 117 Cost (come limite alla potestà legislativa regionale) era richiamato l’interesse nazionale e «quello di altre Regioni», dopo la riforma costituzionale del 2001 si può leggere nel complesso delle disposizioni una linea coerente, a partire da una possibile riscoperta dell’interesse nazionale all’art. 5 Cost., e poi nel disegno di un sistema non più articolato in livelli di governo di rango diverso e ben distinti nella loro posizione in senso (quasi) gerarchico bensì verso un sistema di pluralismo paritario tenuto assieme già menzionati principi di leale collaborazione (art. 120 Cost.) e di sussidiarietà verticale (art. 118 Cost. commi 1-2). Il tutto – in termini concreti – sembra potersi tradurre nella verifica del possibile equilibrio tra coesione e differenziazione, che solo letture superficiali vedono in conflitto, e che invece ci impone di muovere tra dinamiche mirate a rafforzare le aree più deboli ela giusta aspirazione delle eccellenze territoriali promuovendo la loro ulteriore crescita.
Prende corpo, inoltre, una lettura più consistente dell’adeguatezza che – partendo da una conoscenza attenta e articolata dei territori – chiede al legislatore di disegnare gli strumenti più idonei a perseguire un effettivo sviluppo economico sociale dei diversi ambiti locali e, quindi, del Paese. Il tutto, in ultima istanza, con l’obiettivo di perseguire vera uguaglianza e il contrasto al bisogno, obiettivo ultimo della coesione. E per «fare della diversità territoriale un punto di forza» nella prospettiva di una «crescita intelligente, sostenibile e inclusiva» (così il Libro verde sulla coesione territoriale, comunicazione della Commissione al Consiglio, al Parlamento europeo, al Comitato delle Regioni e al Comitato economico e sociale europeo del 6 ottobre 2008), perseguendo non l’omologazione, ma – a parità di garanzie – la valorizzazione delle vocazioni territoriali e delle identità locali, che solo l’effettività e direi la specialità dell’autonomia consegnata ai diversi enti differenziati può assicurare. 



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