Economia politica della sicurezza europea – Sbilanciamoci


La sicurezza degli europei è messa in pericolo dal cambiamento climatico, dall’emergere di forze politiche di estrema destra, dalla guerra commerciale Usa e dalle possibili minacce militari. Di fronte a questi fenomeni, il piano ReArm Europe di Ursula von der Leyen è una risposta del tutto sbagliata.

Il tema di queste riflessioni sono alcuni degli aspetti economici connessi alle nuove minacce alla sicurezza dei cittadini dell’Europa che si vanno delineando nei frenetici avvenimenti di questa primavera del 2025; con tutte le incertezze dovute alla rapida evoluzione che stiamo vivendo e agli enormi margini di oscurità sul futuro.

Non viene discussa la verosimiglianza di ciascuna delle minacce alla sicurezza, sia per mancanza di specifiche competenze, sia per il continuo mutare degli eventi, sia per esigenze di focalizzazione dell’intervento. In particolare, non vengono discusse le vicende seguite all’invasione russa dell’Ucraina né tantomeno alcun aspetto legato a questioni strettamente militari. L’obiettivo è fornire alcuni dati di fatto con qualche conclusione generale.

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In particolare, dopo aver descritto brevemente la grave minaccia rappresentata dalla guerra commerciale dichiarata dagli USA all’Europa, si procede ad un’analisi molto critica del piano ReArm Europe lanciato dalla Presidente della Commissione Europea il 4 marzo 2025, sia sotto il profilo dell’allocazione delle spese che del reperimento delle risorse. 

Il benessere degli Europei è minacciato da almeno quattro grandi fenomeni. Sono profondamente interconnessi fra loro: i primi due, pur non specificamente analizzati in questa sede, vanno tenuti presente discutendo degli altri. 

La prima minaccia sono le conseguenze del cambiamento climatico: le attività economiche e la stessa vita potrebbero essere compromesse nei prossimi lustri dall’aumento delle temperature e dalle relative conseguenze che già si manifestano (ad esempio la carenza di acqua). Esse implicano una grande determinazione nella riduzione delle emissioni, e l’utilizzo di ingenti risorse pubbliche per raggiungere gli obiettivi del Green deal europeo; così come un’azione cooperativa e di stimolo dell’Europa a livello multilaterale, in una cornice di relazioni non conflittuali fra i grandi attori internazionali. 

La seconda è l’emergere e il rafforzarsi all’interno dell’Europa di forze politiche sovraniste, neofasciste, persino con tendenze neonaziste: come l’AFD per la quale ha recentemente votato un tedesco su cinque. Esse rappresentano una evidente minaccia tanto all’unità europea, quanto alle democrazie continentali, quanto ancora ad un clima di cooperazione fra i Paesi europei. Le ragioni di queste dinamiche sono complesse, e diverse da Paese a Paese; tuttavia, con il voto all’estrema destra una parte dei cittadini esprime la propria protesta anche per l’accrescersi delle disuguaglianze, il venir meno delle protezioni sociali, delle opportunità di mobilità in passato meglio garantite dal modello sociale europeo messo in difficoltà dalle politiche di austerità. Rinnovate politiche di rafforzamento del suo modello sociale sono quindi centrali per il futuro dell’Europa.

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La terza, evidente, minaccia, è rappresentata dalla guerra commerciale che ci hanno dichiarato gli Stati Uniti: i dazi nei confronti dei prodotti europei annunciati dall’Amministrazione Trump. 

I dazi minacciati sono di estrema rilevanza, maggiore di quanto avvenuto nel 2016-2020, e seguono iniziative simili nei confronti di Cina, Canada, Messico. Il loro impatto può essere molto sensibile sulle imprese e sull’occupazione. Una simmetrica risposta europea, come evidente dalle teorie del commercio internazionale, aggraverebbe le conseguenze per entrambi i contendenti e potrebbe portare ad una ulteriore, pericolosissima escalation.

Essi rappresentano un attacco frontale al multilateralismo e all’azione, per quanto imperfetta, di entità come l’Organizzazione Mondiale del Commercio nella sua attività di risoluzione delle dispute, come sta avvenendo anche in altri ambiti (Organizzazione Mondiale della Sanità; accordo sulla tassazione equa delle multinazionali). Un quadro internazionale maturato per lunghi decenni, che ha costituito una cornice complessiva positiva – pur con i tanti problemi determinati “dall’iper-globalizzazione” del XXI secolo – per il benessere e la sicurezza economica degli europei.

Le motivazioni economiche addotte dall’Amministrazione americana sono risibili. Il deficit americano con l’Europa non è dovuto a comportamenti scorretti delle nostre imprese, ma a motivazioni macroeconomiche; all’eccesso di spesa rispetto al reddito negli USA, sia per i consumi delle famiglie sia per l’enorme deficit federale (intorno al 6% del PIL), così come si è andato determinando a partire dall’era Reagan. I dazi non avranno pertanto alcun effetto sul deficit commerciale americano, se non di spostare la provenienza dell’import, anche tenendo conto che il deficit federale tenderà a crescere nei prossimi anni visti i tagli fiscali promessi per i super-ricchi. Abbattere il deficit con i dazi, come ha scritto Martin Wolf sul Financial Times (5 marzo 2025) è come “voler appiattire un palloncino completamente pieno”. 

L’Amministrazione USA si concentra poi esclusivamente sul deficit nei beni, ignorando l’enorme surplus americano nei servizi e nei redditi da investimento, tale che il saldo complessivo degli scambi Europa-USA è vicino allo zero. Le motivazioni per i dazi basate sulla tassazione indiretta (IVA) in Europa sono del tutto inconsistenti, dato che essa si applica a tutti i beni (si veda Pisauro su La Voce.info del 20 febbraio 2025). I dazi sono controproducenti per l’economia americana, anche perché aumentano il prezzo dei componenti dei beni che essa esporta; il loro effetto sarà, in prima battuta, quello di ridurre il benessere degli americani.

Ma rischiano di ridurre anche il benessere degli europei: si tratta di una minaccia politica diretta alla nostra sicurezza. Nonostante le esportazioni europee verso gli USA siano solo il 2,9% del PIL (il 21% nel caso del Canada), tutte le stime indicano un possibile, sensibile impatto sull’economia europea (un calo del PIL di almeno lo 0,3% secondo l’Ocse). La rilevante apertura internazionale dell’Italia fa sì che l’impatto sul nostro Paese sarebbe particolarmente forte: ad esempio l’impatto nel settore alimentare, anche nel Mezzogiorno, potrebbe essere molto forte. 

È evidente che la soluzione migliore sarebbe evitare i dazi e l’escalation, attraverso un’intesa con l’Amministrazione americana. Ma tale obiettivo non si raggiunge con un atteggiamento remissivo nei confronti di Trump.  Non pare condivisibile quanto dichiarato il 13 marzo dal vicepremier e ministro degli Esteri Tajani, e cioè che “l’Italia può importare di più dagli Stati Uniti, può investire di più in Usa. E un import maggiore e maggiori investimenti italiani potrebbero essere uno scudo per tutelare le nostre esportazioni in quel Paese”. Non è condivisibile sia perché accettare la logica di Trump (comprate poco da noi) significa aver perso in partenza nel confronto, sia perché la furbesca ricerca di sconti nazionali indebolisce la posizione comunitaria (che ha l’esclusiva competenza in materia), unica difesa anche per il nostro Paese. Per non parlare delle ripetute dichiarazioni dell’altro vicepremier Salvini, collaterali agli interessi americani, in aperto contrasto con gli interessi delle imprese italiane.

Come rispondere? L’Europa ha una straordinaria arma nel diritto di accesso al proprio enorme mercato. La risposta può essere articolata – quantomeno nella fase di una possibile trattativa – con la minaccia di dazi ritorsivi, pur sapendo che essi aggraverebbero l’impatto negativo su entrambi i contendenti. 

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Può però essere articolata anche su altri strumenti: Gabriel Zucman ha proposto ad esempio (5 marzo 2025) di puntare sulle tariffe sugli oligarchi. Si fa riferimento a quel ceto oligarchico di interessi economici contigui al Presidente Trump (proprio come in Russia!) che ne sostiene le politiche alla ricerca di ulteriori occasioni di profitto e di potere. Costruire tariffe mirate e incrementi di tassazione su specifiche attività economiche che fanno capo agli oligarchi americani, per attaccarne direttamente gli interessi economici personali. 

In questi ambiti c’è spazio non solo per l’azione dei governi ma anche per le organizzazioni civiche e politiche europee. Un sondaggio recentemente realizzato dalla rivista Le Grand Continent mostra che il 58% degli europei sarebbe ad esempio favorevole ad una campagna di boicottaggio della Tesla, le cui vendite sono già in caduta libera in Europa. Boicottaggio che potrebbe essere esteso ad altri prodotti e altre attività, non solo di Musk; come in alcuni casi sta avvenendo in Canada. La sicurezza degli europei può richiedere anche mobilitazioni della società civile. 

La minaccia della guerra commerciale, e la discussione pubblica sulla necessaria reazione, dovrebbe ricevere, nell’interesse delle nostre imprese e dei nostri lavoratori, la massima attenzione. Spiace constatare in particolare da parte del governo italiano, un atteggiamento accondiscendente.

La quarta minaccia, che domina il dibattito europeo, è quella di carattere militare. In questa sede non viene discussa la verosimiglianza di una diretta minaccia militare russa all’Europa, e in particolare se essa sia maggiore oggi rispetto al 2022; né della posizione assunta, da allora ad oggi, dai Paesi europei sulla questione ucraina. Piuttosto, vanno anche ricordate le dichiarazioni minacciose di Trump nei confronti di un Paese Nato come il Canada, e di un territorio autonomo (la Groenlandia) di un Paese europeo, e Nato (la Danimarca). Le minacce possono provenire da diverse origini.

Nel dibattito europeo molti commentatori danno per scontato che le minacce militari per l’Europa siano cresciute per l’annunciato possibile disimpegno dalla presenza militare americana. Sarebbe il caso di discuterne a fondo. Si tratta di un tema di enorme portata, rispetto al quale non ci si può semplicisticamente limitare a sostenere che adesso l’Europa deve sostituire con proprie risorse la mancata spesa americana (che, a quanto pare, per puro altruismo se ne sarebbe fatta carico). Andrebbero valutate le profonde, e al momento difficilmente prevedibili, implicazioni di queste scelte sul complessivo quadro delle relazioni internazionali e sullo stesso ruolo e funzioni della Nato. Per il Financial Times (26 febbraio 2025) “the US is now the enemy of the West”. 

È evidente che siamo di fronte a cambiamenti profondi e pericolosi: la minaccia militare alla sicurezza europea non può essere solo esorcizzata: da qualsiasi parte essa potrà provenire in futuro. Tuttavia, nel quadro generale che qui si è accennato, il ReArm Europe rappresenta una risposta profondamente errata. 

Due premesse, prima di analizzare il Re-Arm. Stando alle più autorevoli analisi, la capacità di difesa è oggi più che nel passato, strettamente collegata alle capacità scientifiche e tecnologiche di un Paese (comunicazioni satellitari, fotonica, fibre ottiche, droni, robotica) più che alla dimensione quantitativa delle sue forze armate. Ma la spesa per la ricerca europea è inferiore in molti Paesi, fra cui l’Italia, e frammentata a livello nazionale: non raggiunge dimensioni comparabili con quella americana. È l’insufficiente investimento in ricerca, conoscenza, tecnologia a determinare le potenziali minacce per i cittadini europei.

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È poi acquisizione comune degli analisti della difesa europea (ripresa anche nel Rapporto Draghi) che il problema di gran lunga più importante sia rappresentato dall’inesistente interoperabilità fra le forze armate e dalla frammentazione dell’apparato produttivo, più che dall’assenza di produzione (33 imprese europee sono fra le prime 100 del mondo). Basti considerare la proliferazione di sistemi d’arma oggi in Europa: 20 tipologie di aerei da combattimento contro 7 americani. La quota della spesa collaborativa fra più Paesi europei è sistematicamente non superiore al 20% (cfr. Cottarelli e Virgadamo, IEP@BU Policy Brief 19 Luglio 2024). Un rapporto dell’Università Cattolica del 2020 (Leonardi e Rizzo, Il Foglio, 22 febbraio 2025) stimava risparmi per 32 miliardi all’anno solo dall’accorpamento delle truppe e di 13, ulteriori, da appalti comuni per l’acquisto di armamenti.

Che cosa propone invece il ReArm Europe, come meglio esplicitato nel Libro Bianco sulla difesa presentato il 19 marzo?

Il grande obiettivo è il riarmo dei singoli Paesi europei attraverso un massiccio investimento economico. Il Libro Bianco ammette che le spese degli Stati membri per la difesa sono cresciute dal 2021 al 2024 del 31%, fino a raggiungere i 326 miliardi (1,9% del PIL). Questo, anche in connessione agli enormi sforzi per le forniture militari all’Ucraina decise dai Paesi europei. Tuttavia, la Commissione ritiene che questo livello sia troppo basso, rispetto a USA, Russia o Cina, e pertanto propone di mobilitare 800 miliardi di euro nei prossimi quattro anni (più del Next Generation EU).

Ma è vero che l’Europa è così debole e la spesa così bassa? La complessiva forza economica dell’Europa (incluso il Regno Unito) è maggiore di quella degli Stati Uniti, anche se la spesa militare è più bassa rispetto al 3,3% del PIL americano. Rispetto alla Russia, il PIL europeo, anche tenendo conto del potere d’acquisto, è invece quasi 5 volte maggiore. La spesa per la difesa, se correttamente calcolata (si veda OCPI, 22 maggio 2025), è in Europa nel 2024, del 58% superiore a quella russa, nonostante l’impennata di quest’ultima collegata all’invasione dell’Ucraina.

La Commissione propone di intraprendere quattro principali azioni.

La più importante è attivazione della clausola di salvaguardia nazionale del Patto di stabilità “in modo controllato, coordinato e vincolato nel tempo”. Ciò darà agli Stati membri “lo spazio per investire nella difesa, immediatamente e in modo sostanziale”. Una decisione di grande importanza, molto controversa; dato che il Consiglio e Commissione, al di là di quanto previsto nel caso eccezionale del NextGeneration EU, si sono pervicacemente rifiutati di introdurre nel Patto di stabilità – anche nell’attuale versione – qualsiasi esenzione per le spese in conto capitale (cosiddetta golden rule) anche connesse alla transizione verde o per esigenze sociali, anche straordinarie.

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Secondo le previsioni della Commissione, che sono comunque tutte da verificare, anche perché dipendono dalle scelte dei singoli Paesi, la misura potrebbe sbloccare fino a 650 miliardi. La Commissione sarebbe orientata a prevedere un periodo di attivazione della clausola di quattro anni, fino all’1,5% del PIL per ciascuno di questi anni.

Questo significherebbe per l’Italia destinare alla difesa circa 30 miliardi aggiuntivi all’anno, ogni anno; cioè, una cifra aggiuntiva, superiore al triplo di quanto si spende oggi per l’intero sistema universitario nazionale; con conseguente aggravio del deficit e del debito pubblico. Il rapporto deficit/PIL salirebbe di oltre un punto al 2026. Anche per le regole europee, la riduzione di altre spese pubbliche sarebbe assolutamente inevitabile. Non è un caso che il Financial Times abbia messo a disposizione uno strumento di calcolo per verificare, Paese per Paese, di quanto sarebbe necessario ridurre le spese per salute, l’istruzione e la protezione sociale per raggiungere gli obiettivi in termini di spese militari.

La spesa dei singoli Stati membri potrà tuttavia orientarsi anche verso l’acquisto di armamenti dall’estero, cioè in particolare dagli Stati Uniti, come sistematicamente avvenuto negli ultimi anni (cfr. Cottarelli e Virgadamo, Cit.); la quota degli USA sull’import europeo delle forniture americane è fortemente cresciuta: per l’Italia è superiore al 90%. Davvero difficile sostenere che questo renderà l’Europa più autonoma e sicura!

L’Italia, insieme a diversi altri Paesi europei, ha già dichiarato che non si avvarrà di questa possibilità. Ma in futuro potrebbero determinarsi ulteriori pressioni, anche in sede comunitaria, per un forte aumento delle spese militari: è bene ricordare che il 12 marzo 2025 solo per pochissimi voti il Parlamento Europeo ha respinto una mozione con l’invito agli Stati membri a incrementare sostanzialmente le proprie spese militari.

Al contrario, il nuovo governo tedesco di coalizione CDU-SPD ha annunciato (e reso possibile con una modifica costituzionale del cosiddetto “freno al debito”, operata tuttavia dal Parlamento uscente dopo le elezioni!) un grande piano di investimenti per la difesa, nonché per le infrastrutture e per l’ambiente. È evidente in questa scelta la rilevanza dei momenti che stiamo vivendo. Essa non può che essere da un lato benvenuta, perché collide frontalmente con i dogmi dell’austerità da sempre propugnati dal governo tedesco; rappresenta un utile stimolo per la ripresa economica dell’Europa e dovrebbe essere l’occasione per rimettere radicalmente in questione la logica del nuovo Patto di Stabilità (che rischia dal 2025 in poi di compromettere crescita economica e occupazionale in Italia come negli anni Dieci). Dall’altro, non può che essere vista con attenzione e non poca preoccupazione, data la dimensione e il ruolo della Germania in Europa (e le sue dinamiche politiche interne, con l’enorme crescita dei consensi per un partito di derivazione neonazista). 

Il Regno Unito dal proprio canto ha già provveduto a incrementare le spese per la difesa, traendo parte rilevante delle necessarie risorse da una forte riduzione, dallo 0,5% (cui era già scesa dallo 0,7% di pochi anni prima) allo 0,3% del PIL delle spese per la cooperazione allo sviluppo (FT 3 marzo 2025), con conseguenti dimissioni della ministra Dodds. È necessario chiedersi se evoluzioni del genere rendano più o meno sicuri i cittadini britannici nei prossimi anni nello scenario mondiale.

La Commissione ha anche proposto, di offrire agli Stati membri la possibilità, in occasione della revisione di metà periodo, di destinare a spese per la difesa parte dei fondi per la coesione sociale e territoriale ancora non utilizzati (che il Servizio Studi della Camera stima ammontino a 350 miliardi). Si tratta della proposta più odiosa: dato che sposterebbe l’onere del finanziamento del riarmo più che proporzionalmente sui cittadini europei che abitano nei territori a minor sviluppo: un vero e proprio possibile volano per quei fenomeni di richiesta di protezione politica a quelle forze dell’estrema destra ricordate in apertura.

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Anche in questo caso il governo italiano ha dichiarato che non si avvarrà di questa facoltà: ma questo non mette al riparo, dato che (come opportunamente notato da Svimez Comunica, 24 marzo 2025) in occasione della revisione di metà percorso delle politiche di coesione 2021-27 la Commissione potrebbe avere significative armi di pressione per indurre gli Stati membri a queste scelte. Non conforta certo che il relativo Commissario europeo sia un ex ministro italiano che ha lasciato la carica segnando il record storico nel mancato utilizzo di queste risorse.

La Commissione propone, ancora, di mobilitare 150 miliardi di euro per un nuovo strumento finanziario, denominato SAFE (Security Action for Europe) per fornire prestiti agli Stati membri per accelerare l’approvvigionamento congiunto. Non è tuttora chiara quale potrebbe essere la fonte di approvvigionamento finanziario: si pensa possa essere l’utilizzo di prestiti non (ancora) reclamati sul Next Generation EU, destinati però alle transizioni verde e digitale. 

La base giuridica dell’iniziativa SAFE è la procedura di emergenza ai sensi dell’articolo 122 TFUE, prevista per le situazioni in cui è necessario far fonte a gravi difficoltà nella fornitura di determinati prodotti. La procedura di emergenza esclude dal processo decisionale il Parlamento europeo: si tratta di grave vulnus al policy-making democratico europeo. Il Parlamento ha in ogni caso votato il 12 marzo 2025 una risoluzione sul Libro bianco sul futuro della difesa (approvata con 419 voti a favore) che esprime il proprio sostegno al piano ReArm Europe. Spiace notare che quasi tutti gli europarlamentari del Mezzogiorno abbiano votato in favore di un’iniziativa che rischia di compromettere le politiche di coesione. 

Infine, a Commissione propone altresì di potenziare la capacità di prestito della Banca Europea degli investimenti per le stesse finalità, ma senza prevedere un aumento di capitale di quella istituzione.

Chi paga? Gli Stati membri con le proprie risorse pubbliche. Non vi è alcuna proposta di un indebitamento comune europeo. Non compare nelle proposte della Commissione, né nelle conclusioni del Consiglio alcun accenno a forme alternative di finanziamento, a partire da nuove forme di indebitamento comune, pur pienamente giustificato dalla caratteristica di bene pubblico europeo della sicurezza (tutte le spese vanno a vantaggio di tutti). Non vengono proposte modalità differenti da una distribuzione proporzionale dell’onere su tutti i cittadini europei, anzi con particolare intensità su quelli che vivono nelle regioni meno sviluppate.

Avrebbe potuto essere questa, al contrario, una occasione preziosa per rivedere la posizione di “paradisi fiscali” per le imprese (anche americane) di Stati membri come Irlanda, Olanda o Lussemburgo, mirando alla riduzione e auspicabilmente all’eliminazione di quelle modalità di “dumping fiscale” che danneggiano gli altri Stati membri e in generale i cittadini europei, ad esclusivo vantaggio delle imprese di maggiore dimensione. 

Potrebbe altresì essere presa in considerazione la proposta del EU Tax Observatory che suggerisce l’introduzione di una tassazione patrimoniale sui 537 super-ricchi europei (con patrimonio personale superiore ai 100 milioni): una aliquota pari al 3% produrrebbe, si stima, un gettito di 121 miliardi, di cui 15 in Italia) (cfr. Parrinello, Varaschin e Zucman, “Resources for a Safe and Resilient Europe: The Case for Minimum Taxation of Ultra-High-Net-Worth Individuals in the EU“, marzo 2025).

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Alcune considerazioni finali 

Comunque li si guardi, quelli che stiamo vivendo sono cambiamenti rilevantissimi. Carichi di incertezze come pure di preoccupazioni. Pare indispensabile che i cittadini europei e italiani abbiano piena conoscenza degli eventi così come delle diverse ipotesi e delle opzioni in discussione. I tempi correnti richiedono più che mai ampi e approfonditi esercizi di democrazia, discussione, partecipazione. Anche le università devono svolgere il proprio ruolo.

Il progetto europeo è nato per costruire la pace in Europa in un quadro internazionale il più possibile caratterizzato da intese multilaterali e intensa attività diplomatica. Nel quadro attuale non è affatto facile. E tuttavia questo dovrebbe essere l’obiettivo assolutamente prioritario delle classi dirigenti comunitarie e nazionali, ma non è stato sufficientemente perseguito negli ultimi anni e il rischio è che lo sia ancora meno nei prossimi. Nulla appare più contrario allo spirito e alla storia dell’Europa unita del detto, così tanto citato di questi tempi che “per perseguire la pace bisogna preparare la guerra”.

La sicurezza degli europei è questione molto seria: ma non dipende, come si è detto in apertura, solo da vecchie o nuove minacce militari. Puntare su un enorme incremento di spesa nazionale per il riarmo è assai discutibile. Gli italiani sono più sicuri non con un esercito italiano con qualche decina di migliaia di soldati in più, ma con una rapida transizione energetica verso le rinnovabili che ci metta al riparo dal ricatto dei fornitori di combustibili fossili (dal gas algerino al GNL americano). E sono più sicuri con uno sforzo molto maggiore in ricerca e sviluppo che ci faccia progressivamente recuperare i gap tecnologici in tecnologie chiave, dal digitale allo spazio. E lo sono con politiche di istruzione e sicurezza sociale che includano maggiormente le fasce più deboli della popolazione europea e evitino che (come negli anni Trenta del Novecento) esse esprimano sostegno a forze estremiste, neofasciste. Non si può solo pensare alle spese militare come se esse non avessero effetto sulle altre politiche pubbliche. 

L’opinione pubblica italiana appare in ogni caso fortemente contraria all’incremento delle spese militari (54-33, sondaggio Ghisleri, 39-28 sondaggio Pagnoncelli), anche se in misura molto minore rispetto agli altri Paesi.

Soprattutto, la scala delle risposte a queste minacce non può che essere europea: sia per l’atteggiamento minaccioso del tradizionale alleato americano, sia per l’evidente incapacità dei singoli Paesi – anche dei più grandi e di quelli dotati di dissuasione nucleare – di affrontarli singolarmente. Ma gli attuali assetti politici e giuridico-istituzionali della UE paiono incompatibili con l’assunzione di questo ruolo. La sicurezza degli europei impone l’immane compito di ridisegnare l’Unione, e la cooperazione fra i Paesi europei anche al di là dell’unanimità comunitaria, in molti fondamentali aspetti. Scorciatoie come il ReArm EU non portano certamente lontano.

Quest’articolo riprende l’intervento al seminario “Economia di pace e difesa comune. Per il futuro dell’Europa”, Università di Bari, 27 marzo 2025. Viene pubblicato in parallelo anche su Etica ed economia.

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