Alla mossa di The Donald, l’Europa ha perso il treno della reazione immediata, così come hanno fatto Canada e Messico nel momento della prima intemerata commerciale (un mese fa) dell’inquilino della Casa Bianca. Abbiamo dunque il tempo (almeno fino al 15 aprile secondo la von der Leyen) per avviare una riflessione strutturata su che cosa dovrebbe fare il Vecchio Continente.
Due cose appaiono ai miei occhi scontate. Evitare di reagire con contro-dazi così come ha fatto la Cina: sarebbe l’innesco perfetto di una spirale fortemente negativa, che non farebbe altro che impoverire tutti. Dialogare e agire uniti nei confronti di Trump: arrivo ad affermare che dobbiamo andare oltre l’UE e inglobare il Regno Unito al fine di affermare tutto il nostro peso negoziale. Se questo è il quadro di riferimento, la prospettiva europea dovrebbe caratterizzarsi per due ambiti di azione. Il primo consegue alla consapevolezza che il nuovo atteggiamento di zio Sam rende non più rimandabile l’uscita dal torpore idealista in cui è andata infilarsi progressivamente. È infatti leader mondiale nella riduzione delle emissioni di carbonio.
Primeggia anche in molte dimensioni dell’inclusione economica e del progresso sociale, come la disuguaglianza di reddito e l’aspettativa di vita. Tuttavia, l’Europa non ha ottenuto risultati altrettanto positivi per quanto riguarda la crescita economica. Dobbiamo invece maturare la consapevolezza che sostenibilità, inclusione e crescita si rafforzano o si indeboliscono a vicenda. Solo insieme, questi tre elementi possono garantire un futuro prospero e sostenibile. Identificare la crescita economica come obiettivo chiave dei prossimi anni richiede scelte non convenzionali (quantomeno per gli standard della Commissione UE). Molte sono (purtroppo) le azioni che devono essere portate avanti in tal senso.
È indispensabile, in primo luogo, abbandonare il bizantinismo burocratico in cui versa il Vecchio Continente. Uno studio del Financial Times ha del resto evidenziato che tempi e costi del cambiamento in Europa sono molto superiori rispetto agli USA proprio per il peso delle leggi che vessano le imprese. È indispensabile superare i 27 sistemi di regole diversi per affermare un codice aziendale a livello di UE (a cui le imprese potrebbero aderire volontariamente) per facilitare l’espansione e l’attrazione di investimenti da tutta l’Unione (e oltre). Questo potrebbe rappresentare un punto di svolta per favorire investimenti in Europa: così da far crescere rapidamente piccole imprese e start-up e/o favorire progetti di sviluppo di provenienza extra UE. Serve in secondo luogo fare politica industriale; in termini concreti questo significa orientare la spesa pubblica verso alcuni settori chiave ad esempio quelli delle big tech, favorire la nascita di campioni continentali in barba ad astratti principi antitrust e fare di tutto per ridurre i costi dell’approvvigionamento energetico per le imprese europee.
Oltre all’uscita dal letargo conseguente ad un astratto idealismo, è in secondo luogo necessario che si passi all’azione rispetto a Trump. Serve allinearsi alla sua linea di (non) dialogo, utilizzando il linguaggio della forza negoziale, che è l’unico in grado di riportare il Presidente americano a più miti consigli. Come fare? È piuttosto semplice: occorre far capire a The Donald che senza l’Europa gli Stati Uniti potrebbero entrare in grande difficoltà e lui non riuscirebbe ad affermare il suo disegno. Infatti l’esposizione degli investitori europei su titoli americani è quadruplicata passando da 3.600 miliardi nel 2013 a 13.100 miliardi nel 2024; i titoli del tesoro americano in mano a soggetti dell’area euro sono aumentati esponenzialmente in questi anni (come conseguenza del quantitative easing della BCE): da 197 miliardi di dollari a 1.452 nel 2023. Come europei siamo dunque nella condizione di “avere le carte” per dirla alla Trump: se ci impoverisce con i dazi, chi comprerà il suo debito (sempre crescente in virtù delle sue politiche)?
Non sarà facile; è necessario un bagno di realismo e di presa di coscienza che siamo in una faglia della storia: nulla sarà più come prima e le ricette del passato non sono più sostenibili. Il cambiamento determinerà qualche sacrificio politico ma ne vale la pena. Come ha recentemente sostenuto il primo ministro albanese l’America senza l’Europa è giusto un’isola; l’Europa senza l’America è una penisola.
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