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L’impatto dei dazi targati Trump e le direttrici di marcia europee


Si può organizzare di questi tempi un convegno economico senza avere al centro delle discussioni i dazi di Trump? Davvero difficile. E infatti, inevitabilmente, anche l’incontro annuale di primavera di The European House Ambrosetti (TEHA) è stato ampiamente percorso dal tema dei dazi. Nel Workshop, svoltosi venerdì e sabato scorsi a Villa d’Este di Cernobbio, il titolo “Lo scenario dell’economia e della finanza” ha fatto da ombrello a dibattiti in larga parte attraversati dalle nuove misure protezionistiche varate dal presidente USA. Imprenditori, manager, banchieri, economisti si sono confrontati sulla situazione e sulle prospettive. Sui passi da fare da questa parte dell’Atlantico i pareri erano e restano diversi, ma l’attenzione di tutti per il nodo dazi ora è ovviamente grande.

Sulle rive del Lago di Como TEHA Group ha presentato una sua analisi sull’impatto possibile delle nuove politiche commerciali americane sul sistema economico europeo. Secondo gli esperti di TEHA, l’introduzione di dazi USA pari al 20% su tutte le esportazioni e al 25% su acciaio, alluminio e veicoli può comportare per l’Unione europea un incremento dei costi doganali di 104,4 miliardi di euro (circa 98,5 miliardi di franchi al cambio attuale). Germania e Italia, Paesi fortemente esportatori, potrebbero essere particolarmente colpite, con maggiori oneri doganali rispettivamente di 34 miliardi e 14 miliardi di euro. In questo tipo di scenario, i settori più penalizzati sarebbero nell’ordine i macchinari, l’automotive e la farmaceutica, seguiti da agroalimentare e moda.

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Per affrontare la sfida dei dazi USA e garantire la resilienza del sistema economico europeo, gli analisti di TEHA propongono un piano d’azione articolato in quattro direttrici principali. La prima direttrice è una pratica unitaria da parte dell’Unione europea, per preservare il peso politico ed economico dell’UE a livello internazionale e per difendere la competitività delle imprese europee. La seconda direttrice è l’accelerazione del rafforzamento delle alleanze strategiche dell’Unione europea verso mercati che presentano un alto potenziale per gli scambi economici, tra i quali Turchia, Giappone, Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita.

La terza direttrice è legata alla necessità di alzare i toni in chiave di deterrenza, evidenziando ciò che più temono gli Stati Uniti: un attacco a Wall Street e al dollaro. I Paesi dell’Unione europea nel loro complesso detengono circa 1.700 miliardi di dollari del debito pubblico statunitense e gli investitori europei possiedono circa 9 mila miliardi di dollari in azioni americane. Tutto ciò secondo gli esperti di TEHA va ricordato e va fatto pesare. La quarta direttrice è l’obiettivo di un maggior coinvolgimento delle multinazionali USA che operano nell’UE; queste multinazionali impiegano 3,6 milioni di addetti e rappresentano il 16,8% delle esportazioni europee verso gli Stati Uniti; un Tavolo di lavoro congiunto tra UE e USA potrebbe rivelarsi cruciale per contrastare le politiche protezionistiche e favorire un approccio più bilanciato alle relazioni commerciali, esercitando una pressione efficace sull’Amministrazione USA.

Uno dei televoti organizzati durante il Forum ha visto i circa 200 partecipanti rispondere sul possibile impatto dei nuovi dazi annunciati da Trump. Alla domanda su quanto sia grave l’impatto sul proprio business, in una scala da 1 a 6, cioè da poco a molto grave, la maggioranza relativa si è collocata tra 5 e 6 (41%); a rispondere “poco” è stato il 16%. I partecipanti hanno anche indicato che l’impatto sarà maggiore per l’Unione europea più che per l’Italia: a collocarsi tra il 5 e il 6 sono stati il 65% per l’UE e il 40% per la Penisola. Per quel che riguarda il cambio euro/dollaro USA, il 60% dei partecipanti ha indicato che tra un anno, nell’aprile del 2026, l’euro sarà più forte; il 23% ha invece affermato che la moneta unica europea sarà più debole.

Per quel che concerne l’andamento delle imprese rappresentate, il 64% dei partecipanti ha indicato che la propria azienda sta performando meglio o molto meglio dei concorrenti. Sul versante delle previsioni di fatturato per il 2025, il 18% dei partecipanti ha affermato di poter chiudere l’anno con una crescita superiore al 10%; il 36% ha indicato una crescita inferiore al 10%; il 16% ha indicato una previsione di flessione entro il 10%; il 6% infine ha dichiarato una previsione di flessione superiore al 10%. Per quel che riguarda l’occupazione, il 39% dei partecipanti ha affermato di non prevedere variazioni nella propria impresa, mentre il 33% ha indicato la possibilità di un aumento dell’organico inferiore al 10%.

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«La parola chiave adesso è incertezza. Gli Stati Uniti ora sono imprevedibili e ciò inevitabilmente suscita timori. Non a caso la reazione dei mercati finanziari ai nuovi dazi americani è stata molto negativa. Dal canto suo l’Unione europea non può non reagire». Enrico Giovannini, professore ordinario di Statistica economica all’Università di Roma Tor Vergata, descrive con preoccupazione ma anche con grande calma il quadro, senza nascondere i rilevanti nodi esistenti ma pure cercando di delineare i piani d’azione possibili per quanti sono colpiti dai dazi USA. Giovannini, già ministro del Lavoro nel Governo Letta e ministro delle Infrastrutture nel Governo Draghi, è da tempo tra i protagonisti dei convegni di The European House Ambrosetti (TEHA), a Villa d’Este di Cernobbio. In occasione del Workshop svoltosi venerdì e sabato scorsi lo abbiamo incontrato e gli abbiamo posto alcune domande sulla situazione che si sta creando con le mosse protezionistiche dell’Amministrazione Trump. «Sono stato recentemente a un convegno che rappresenta un po’ la Davos della Cina – dice Giovannini – e lì l’opinione di molti era che il Nord globale è finito, visto come l’offensiva USA colpisce anche l’Europa. Purtroppo ora è così. Occorre certamente una risposta europea, però su più livelli, articolata. Al di là degli eventuali controdazi, bisogna cercare anche di sviluppare negoziati con gli Stati Uniti. E questi dovrebbero comprendere anche i servizi, non solo le merci, perché gli USA sono in deficit commerciale per quest’ultime ma non per i primi. Bisogna poi guardare anche all’ampliamento degli scambi con altre aree del mondo, anche se il riorientamento dell’export non è certo una cosa banale». Si sta diffondendo il timore di una recessione, non solo negli USA ma a livello internazionale, a causa della contrazione dei commerci (accompagnata da rialzi dell’inflazione) che i nuovi dazi americani potrebbero portare. È un timore giustificato? «La recessione – afferma Giovannini – è in effetti un rischio possibile, anche se ora è presto per fare analisi più precise. Dipenderà da molti elementi e soprattutto dall’atteggiamento sia delle imprese sia dei consumatori. Certo, l’indice di fiducia ora negli USA registra una discesa e la reazione negativa delle Borse è stata chiara». Secondo l’ex ministro italiano ci sono da considerare anche alcune importanti conseguenze indirette della guerra dei dazi. «C’è il rischio che in molti Paesi, Italia inclusa, si fermino investimenti di rilevanza strategica – afferma Giovannini – tra cui quelli che riguardano lo sviluppo del digitale e la lotta alla crisi climatica. Se così fosse, ci sarebbe un effetto negativo proiettato sul futuro». A proposito di Italia, la premier Giorgia Meloni ha dichiarato che i nuovi dazi USA sono sbagliati ma non sono una catastrofe. Come valutare questa posizione? «Se guardiamo alla realtà italiana – dice Giovannini – bisogna fare una distinzione. Da un lato gli indubbi effetti negativi dei dazi americani possono essere in parte assorbiti, pur creando chiare difficoltà. Dall’altro bisogna precisare che questi effetti negativi cadono su un’economia italiana che ora non sta certo correndo. Un conto è dover affrontare questo tipo di sfide quando c’è euforia, un altro conto è farlo quando già esistono non pochi problemi. In questo secondo caso le difficoltà rischiano di moltiplicarsi». Il dollaro in questi ultimi mesi si è indebolito. Molti si chiedono se ciò sia legato alla volontà di Trump di facilitare l’export americano o se si tratti invece di sfiducia degli investitori nei confronti degli USA. «Credo che convivano – afferma Giovannini – entrambi gli aspetti. Donald Trump ha la sua linea ma è anche più che probabile che molti fondi europei stiano riducendo gli investimenti nell’area degli Stati Uniti. Anche su questo è troppo presto per fare una valutazione complessiva. È chiaro però che i dazi aumentano il rischio di rapide spirali per le valute, in un senso o nell’altro».



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