Anche la svizzera Roche pronta a investire 50 miliardi negli Usa. Ecco le aziende che cedono ai diktat di Trump


Il colosso farmaceutico svizzero Roche ha annunciato un piano quinquennale di investimenti da 50 miliardi di dollari negli Usa. “Questi investimenti rafforzano ulteriormente la già significativa presenza di Roche negli Stati Uniti, con 13 stabilimenti produttivi e 15 siti di ricerca e sviluppo nelle divisioni farmaceutica e diagnostica, e si prevede che creeranno oltre 12mila nuovi posti di lavoro”, fa sapere l’azienda. La casa farmaceutica possiede già stabilimenti negli Stati Uniti e ha affermato che l’operazione contribuirà ad ampliare la capacità produttiva dei siti in Kentucky, Indiana, New Jersey, Oregon e California.

Quello di Roche è solo l’ultimo annuncio di una serie di dichiarazioni di multinazionali che pianificano un rafforzamento della loro presenza produttiva all’interno dei confini statunitensi, per evitare le barriere tariffare volute dall’amministrazione Trump. Piani di lungo termine che lasciano ipotizzare che le aziende coinvolte non si attendano un radicale mutamento delle condizioni commerciali anche una volta terminato il quadriennio del presidente in carica. Uno degli obiettivi dei dazi è proprio questo, forzare il rimpatrio o la localizzazione di fabbriche entro i confini nazionali, a danno di altri paesi. Difficile, comunque, azzardare previsioni sui risultati, perché i rallentamenti dei commerci e della crescita economia prodotti dalle barriere doganali potrebbero, per contro, causare chiusure e perdita di posti di lavoro.

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Sta di fatto però che almeno le dichiarazioni di intenti non mancano. Per restare in ambito farmaceutico la casa farmaceutica statunitense Pfizer ha fatto sapere di essere disposta a “rimpatriare” produzioni che attualmente si trovano all’estero, mentre la concorrente Eli Lilly ha annunciato la creazione di 4 nuovi impianti negli Usa, con una spesa di 27 miliardi nei prossimi 4 anni. Strategia simile, ma più in grande, quella di Johnson & Johnson: 55 miliardi per costruire nuovi siti da qui al 2030. Alcuni giorni fa le case farmaceutiche europee hanno minacciato un esodo verso gli Usa se l’Unione europea non si doterà di regolamentazioni più favorevoli per il settore.

In ambito automobilistico si stano muovendo soprattutto le case dell’Estremo Oriente. Hyundai ha presentato un piano di investimenti negli Usa da 21 miliardi di dollari. Toyota sta invece valutando la possibilità di produrre la prossima versione del suo Suv Rav4, il più venduto, negli Stati Uniti. Honda sposterà la produzione del modello Civic con motore ibrido dal Giappone al suo stabilimento in Indiana negli Stati Uniti. La casa auto ha spiegato di ritenere opportuno trasferire la produzione del modello, attualmente assemblato nello stabilimento della prefettura di Saitama, a nord di Tokyo, negli Stati Uniti, considerando l’elevata domanda e popolarità della Civic negli Usa. Dall’Europa Volkswagen sta valutando la costruzione direttamente negli Usa di alcuni modelli Audi: “Sono in corso colloqui costruttivi con il governo statunitense”, afferma la casa tedesca.

Nel mondo della moda e del lusso, il presidente del colosso francese Lvmh, Bernard Arnault, ha avvertito che il gruppo sarà ”obbligatoriamente condotto ad aumentare le produzioni americane” se i negoziati tra Ue e Usa sui dazi dovessero condurre ad una situazione svantaggiosa per i prodotti europei, aggiungendo che poi ”non bisognerà dire che la colpa è delle aziende. Sarà colpa di Bruxelles se questo dovesse accadere”. Dichiarazioni che hanno suscitato reazioni indignate da parte della politica francese, soprattutto a sinistra, con accuse ad Arnault di essere un “venduto agli americani”.

C’è poi lo strategico settore sei semiconduttori. Il gigante taiwanese dei semiconduttori Tsmc, già impegnato a rafforzare la sua presenza negli Usa, il gruppo asiatico ha portato a 100 miliardi il valore del suo investimento, mettendo in agenda la costruzione, da qui al 2023, di 5 siti di fabbricazione di chip e un centro ricerca. Secondo la società, una volta pienamente implementato il piano, si creeranno 40mila nuovi posti di lavoro. La statunitense Nvidia, che pure non vorrebbe abbandonare la sua relazione con la Cina nonostante le pressioni della Casa Bianca, si è impegnata a investire 500 miliardi di dollari per realizzare supercomputer per l’intelligenza artificiale solamente negli Stati Uniti.

Infine, da non dimenticare l’llarme lanciato dal Centro studi di Confindustria. Con i dazi il rischio delocalizzazione delle imprese italiane negli Usa “è un rischio concreto, a tal punto che già lo vediamo nei dati. Se questa presidenza è stata molto dirompente, in realtà anche la strategia Biden di rafforzare molto gli incentivi hanno reso conveniente andare a produrre negli Usa”, ha osservato il direttore del Csc di Confindustria Alessandro Fontana. Per dare un “ordine di grandezza dei rischi”, il direttore ha ricordato che le “imprese esportatrici sono circa 80mila, di cui 24mila quelle verso gli Usa: se consideriamo le grandi imprese, il 4% degli esportatori fa circa il 60% export, mettendo insieme questi numeri arriviamo a un migliaio di grandi imprese, che fanno una quota molto importante, superiore alla metà, dell’export verso gli Usa e danno lavoro a 1,5 milioni di addetti, e i rischi sono focalizzati su queste”.



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