E beati siano i penultimi: poveri, anche se lavorano

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Sarà vero, come dice la nostra Presidente del Consiglio, che «in Italia abbiamo il numero di occupati più alto da quando Garibaldi ha unificato l’Italia»? Certo, visto e considerato che nel 1860 gli italiani erano poco meno di 26 milioni e oggi ne siamo 59 e rotti… difficile darle torto. Ma prima che Giorgia Meloni, per rintuzzarci, risfoderi la sua fida calcolatrice (sì, quella già utilizzata con successo con Vespa a Porta a Porta) e riprenda a dare i numeri, meglio chiuderla qui. E senza scomodare Garibaldi, Carlo Alberto o Franceschiello prendiamo pure atto del dato che ha mandato Giorgia in brodo di giuggiole: nel secondo trimestre dell’anno passato il tasso di occupazione è effettivamente salito dal 62% al 62,5% (un incremento, cioè, dello 0,5% rispetto al trimestre precedente). Questo secondo l’Ocse. Ma a sentire pure cosa dicono Istat e Caritas: in Italia, il numero dei «poveri assoluti» (quelli, cioè, che un lavoro non ce l’hanno) sfiora i 6 milioni… ma quello dei «poveri relativi» (coloro che in un modo o nell’altro un lavoro invece ce l’hanno) supera gli 8 milioni e mezzo! Sovrapponendo quindi, i dati alla garibaldina della propaganda, e quelli rosselliniani del realismo, ne vien fuori una verità inconfutabile: i numeri sull’occupazione vanno letti sempre in rapporto alla qualità della vita. Orrenda quella dei 6 milioni di ultimi che per sopravvivere devono tendere la mano, non meno schifosa quella degli 8 milioni e mezzo di penultimi che pur facendosi un mazzo tanto non mettono insieme il pranzo con la cena. E se Stato, Chiesa, volontariato, benpensanti col senso di colpa e passanti distratti, agli ultimi bene o male una qualche forma di sguardo pure lo dedicano, i Penultimi Uomini sembrano condannati all’invisibilità.

Eppure questa nuova classe sociale del subprime, sospesa tra borghesia e sottoproletariato, è dagli inizi del nuovo millennio che cresce in modo esponenziale, eppure per quanto sempre più numerosa, è senza alcuna rappresentanza né politica né sindacale.

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La prima Penultima che incontriamo è Paola, napoletana, avvocato senza clienti che alla perenne ricerca di una stabilità ha dedicato quasi quarant’anni senza trovarla: «da qualche anno ho iniziato a fare la supplente di sostegno, ogni anno trovo cattedre, ma sempre al nord. Vivo, in pratica, come una studentessa fuori sede ma pur dividendo alloggi e utenze, del mio stipendio non mi rimane nulla. Fitto, trasferte, spese per sistemarmi quando arrivo nella nuova città, le folli spese alimentari… ma devo mangiare anche io e… oplà: pur lavorando sono praticamente povera in canna. per aiutarmi mia sorella quasi tutti i mesi mi fa un bonifico.» Precaria nel lavoro quanto nella esistenza. Un’eterna adolescenza che ha minato il suo carattere rendendola fragilissima e incapace di mettere radici in qualunque cosa: che sia un amore, una comitiva, una idea politica, un territorio. «Ci sono insegnati che per lavorare fanno quotidianamente anche sei ore di viaggio» continua Paola tormentandosi una ciocca, «si dorme in treno, si arriva a casa stravolti dalla rabbia, oltre che dalla stanchezza, e si spera, si spera, si spera…» Nel suo su e giù per l’Italia ha perso tutto: i lutti che non si fa in tempo a digerire, i figli che non si fa in tempo a procreare, gli amori che non si fa in tempo a consumare. Gli «annuali» come lei passano decenni vivendo un anno in una città e un anno in un’altra, senza creare nessun legame con i luoghi, con i colleghi, con le problematiche sia del territorio che della stessa scuola: un pendolarismo dell’anima, dove si invecchia senza avere nemmeno la percezione di essere invecchiati.

Come Paola di estrazione borghese, abbiamo ragazzi che si cimentano con la professione del giornalista, che trascorrono eterni stage a fare copia-incolla nelle misteriosissime agenzie service che confezionano siti di informazione e giornali, senza creare nulla per loro. Compenso: pochi euro a pezzo, finché dura l’età d’oro delle agevolazioni destinate ai giovani. Poi? Qualcuno trova un campo di atterraggio, qualcuno si ricicla… tutti gli altri vanno a ingrossare la classe sociale dei Penultimi.

La percezione nel percepirsi povero sì, ma fuori dal recinto degli ultimi, rende senza rete queste esistenze, prive non solo di mezzi di sussistenza, ma anche di prospettiva, di condivisione di spazi di povertà possibile. Un’invisibilità al quadrato che finisce con l’esercitare il suo potere maligno sullo stesso Penultimo, reso estraneo a sé stesso, oltre che al mondo. Una recita che determina un’alienazione permanente, un bipolarismo sociale che impone a questa fetta per lo più di medio e piccola borghesia, riti che non si può più permettere. Del resto per un Penultimo è difficile praticamente tutto: da avere una casa in fitto, a partecipare alla socialità, accedere al micro credito, deburocratizzare i buffi del passato, essere assunti con qualunque mansione. Le aziende, dopo averli spremuti in gioventù, hanno diffidenza verso queste persone e preferiscono personale sul quale possono più facilmente esercitare pressioni, perché inquadrabili negli eterni «contrattino» truffa o perché in linea estetica con la mansione da svolgere.
Salvatore, altro Penultimo, lo incontriamo nella «ripulita» (nel senso trumpiano del termine) Piazza Garibaldi, schiacciato tra fantasmi del passato, ansie per la sopravvivenza spicciola e l’assenza, quasi ideologica, di un futuro possibile, si picchietta la tempia con un dito: «non sono abbastanza vecchio per aver partecipato alle lotte degli anni Settanta e non sono abbastanza giovane per aver preso parte alle iniziative no-global, sempre in mezzo… in anticipo o in ritardo, insomma né carne né pesce… non uno dei 71 miliardari italiani» ridacchia «e manco uno dei sei milioni di poveri!».

Da giovane Salvatore si è fatto d’eroina ma era un secolo fa e miracolosamente la sua dipendenza non ha intaccato il corpo né il cervello, tanto che oggi, a quasi sessanta anni, è un intellettuale lucido dal linguaggio vetero-comunista al limite dello snob. Alle spalle carcere, baraccopoli, mazzate, overdose, una volta si è perfino ritrovato con una canna di pistola infilata in bocca… ma oggi è in forma, ha una donna meravigliosa, tanti amici e sebbene squattrinato, un piatto a tavola, storto o morto, lo mette tutti i giorni. Ma perché Salvatore non ha mai più ritrovato uno straccio di ruolo nella società? Il dramma di tanti Penultimi Uomini sono i traumi fatti o subiti, colpe o sfighe, disfunzionalità o fallimenti… il risultato finale non cambia e non si funziona più in nulla. Nemmeno come poveri. E così, per un intellettuale snob e gradevole come Salvatore, difficile farsi assumere in un fast-food per sbucciare patate o in un ufficio a smistare la posta. Persino ai radar delle associazioni del Terzo Settore, oberate come sono dalle perenni emergenzialità dagli Ultimi, il target dei Penultimi decisamente sfugge. Laddove quelle poche misure attive si rivolgono sostanzialmente a nuclei familiari con minori o invalidi a carico, mentre lo sconquasso delle disfunzionalità è dal punto di vista burocratico difficilmente dimostrabile. La politica poi, i Penultimi li snobba perché danno nell’immediato poca visibilità: meno di quella che si ottiene portando un panino a un barbone o raccogliendo un cucciolo da un cassonetto. Che poi i Penultimi, spappolati come sono da nevrosi sono pure molto complicati da intruppare. Insomma, a quelli come Salvatore non resta che rimanere a bagnomaria, scroccando dimensioni abitative e micro sopravvivenze di un day by day spietato e cronicizzante.

Nella cultura liberale degli yankee esiste una filosofia della «seconda chance» profondissima, per cui la stessa società premia e accoglie taluni Penultimi… proprio perché caduti e poi rialzati! Valore aggiunto per aziende e salotti. Alla Vance per intenderci. Retaggio d’un protestantesimo per cui l’eroe è quello che riemerge dalla polvere più che colui che vede le tappe della vita come fossero fermate d’un tram. Da noi invece persiste una divisione ben netta tra chi è a terra e chi no, questa divisione mette i Penultimi nella condizione di dovere aggrapparsi a qualsiasi cosa pur di non finire a terra e al tempo stesso, di farlo camuffando la propria condizione.

Per giustificare l’oblio su queste esistenze, esiste poi un concetto di esoticità.

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Ogni marginalità, in modo molto complesso, contiene una propria estetica, una specifica pietas che accoglie il morente. In fondo il bambino del Terzo Mondo ci commuove di più del bambino italiano di periferia, gonfio com’è di merendine sintetiche e video giochi. Proprio questa caratteristica del dolore, di ogni dolore, crea un consenso, un indice di indignazione variabile. E il motore della solidarietà si basa proprio su questo coefficiente esotico che diventa, oltre che azione concreta, tenerezza; Paola, Salvatore e gli altri Penultimi come loro non generano tenerezza… di più: sotto sotto ci stanno pure un poco antipatici perché si ostinano a somigliare a tutti gli altri che Penultimi (ancora) non sono. E a ben vedere, un’analisi delle misure attive del nostro Welfare è speculare a questo sentimento di antipatia circolare, con banche etiche e Terzo Settore imprigionati in una concezione della povertà ottocentesca. Si interviene – quando si interviene- nel palesarsi estremo del dolore, quando marginalità e problematiche di vario tipo rendono l’intervento calato dall’alto, tardivo. Almeno nella logica di salvare le vite rotte e non solo accompagnarle con dolcezza al creatore. Perché spettro della «cronicizzazione della povertà» pretende, in modo molto poco lungimirante, che prima di suscitare il nostro sdegno o intervento, le vite rotte si rompano del tutto. Le misure di sostegno al reddito poi, sono in gran parte incentrate a sostenere gli erogatori della bontà, che per quanto in buona fede, finiscono spesso col distaccarsi totalmente da ogni misurazione logica del proprio agire. Troppe volte imperniato su meccanismi tanto infantilizzanti quanto non adatti a persone ancora in grado di gestire la propria, sia pur monca, esistenza. L’omologazione insita in ogni intervento benefico esclude così chi, per disfunzionalità o identità, non riesce a mettersi con la mano tesa in attesa della scodella di cibo. Sia per pudore, sia perché non abbastanza distrutto da farlo. Col paradosso che resistere, cercando di rimanere in piedi, rende queste utenze di “mezzo” difficili perfino da individuare statisticamente. Fenomeni latenti quindi, in molti casi, restano insabbiati per anni per poi magari esplodere in disturbi psichiatrici violenti, dipendenze, in casi estremi suicidi.

Legami liquidi, rapporti d’uso, il crescente disagio psicologico, le varie forme di vuoto: questa fetta di umanità non ha fatto in tempo a rendere strutturali i propri privilegi possibili: ha fatto studiare i figli, vero, ma poi tra tagli, privatizzazioni, delocalizzazioni, automazioni, deindustrializzazioni e altre diavolerie non ha saputo sistemarli. Il Penultimo condivide aspettative uguali alla sua classe di appartenenza, rischiando però di cadere continuamente nelle sabbie mobili di una povertà estrema, cronica, mortale e di caderci divorato dalla bile.

Il mondo del margine si va così arricchendo di nuove figure legate non solo al disagio economico in senso stretto, quanto a un disagio mentale in senso lato.

Pasquale è uno di queste e la sua vicenda ha del paradossale. In passato ha avuto episodi di disturbo psichiatrico Pasquale, anche violenti, con tanto di ricoveri e cartelle clinica: potrebbe quindi solo presentando queste documentazioni accedere al mondo una sopravvivenza. Potrebbe, per dirne una, avere la pensione di invalidità. Ma lui non la chiede: Pasquale, il bollino dell’ex malato di mente non lo vuole perché invalido non si sente e lo spettro stigmatizzante della malattia, vuole allontanare lavorando. E così, oltre ai falsi invalidi, esistono a Napoli (e non solo) anche i falsi non invalidi che per non resuscitare i fantasmi del passato, che siano tossicodipendenze, gravi lutti, invalidità dei familiari o quel che è, finiscono per non aver accesso al welfare.

«Una volta ho trovato un lavoro, si trattava di un servizio di portineria, per uno di quei service che offrono servizi così a cottimo. Mi sono dovuto comprare un paio di divise, manco fossi un libero professionista e ho dovuto anticipare le spese di trasporto… ma ero felice e mi sono buttato in questa cosa pieno di aspettative. Ma poi i turni spesso finivano tardi e per rientrare a casa ci mettevo pure due ore. Cenavo da solo cercando di non svegliare la famiglia. A dormire… dormivo poco e male, e poi di nuovo on the road nascondendo la stanchezza. Il tutto per quattro euro. Quatto fetentissimi euro all’ora. Ho retto qualche settimana… una mattanza per me: mollare questa cosa mi ha fatto sentire finito.» Pasquale si cronicizza lentamente, nella sua solitudine, nella sua vacuità sociale, nella sua attuale incapacità anche di sognare per lui una vita diversa. Una mezza vita. La neo-schiavitù, molto oltre il giudizio che ciascuno di noi può averne, non si concilia con le esistenze dei Penultimi, proprio perché impone ritmi che non si ha, per colpa o sfortuna, la capacità di sostenere. Il turno «spezzato» del lavoro interinale, quello per cui si lavora nella stessa giornata su più fasce di orari, se svolto lontano da casa, impone al lavoratore di stare anche 16/18 ore a zonzo. Un equilibrio che si basa sulla potenzialità del neo schiavo di reggere e il Penultimo, nelle sue fragilità congenite, non ci riesce.

Anche Letizia, donna elegante e preparata, a modo suo è una Penultima: atipica, ma pur sempre una Penultima. Una di quelle che da giovane ha bruciato tutte le tappe. «Sembravo destinata a spaccare tutto, ma ho pestato il piede sbagliato e da allora non ho più lavorato.» Si è fermata. Lei dice che l’hanno fermata. Fatto sta che non si è più mossa. «Mio marito è benestante e direte voi: chissenefrega! Tanto stai a casa bella e sistemata. Ma io… io a volte guardo la signora che dà una mano a casa mentre stira… e provo invidia! Sì, per i dieci euro che io stessa le do.» Come un cancro, l’espulsione che ha subito dal mondo del lavoro le manda fitte di dolore. Eppure è una donna fortunata attorniata da fortunati, ma la ferita non si sana. «È difficile farlo capire in un mondo di povertà e guerra, mi sento meschina. Meschina a provare dolore per essere meschina. Mi metto vergogna di provare vergogna. Ma a me mi manca un pezzo di me stessa, è così… si può magiare bene e al tempo stesso, sentirsi digiuni!».

Attori, scrittori, artisti, giornalisti… basta uscire dal cono di luce, per un motivo o un altro, e si finisce ai margini della scena. E non tutti hanno sposato bene come Letizia. Al fallimento di una carriera artistica allora può corrispondere la frana psicologica e sociale. Certo, la deprivazione del borghese benestante non commuove, ma pure quella procura dolori e buchi profondissimi in chi cade da queste vere o false prospettive d’altezza.

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Già, esistono fin anche i Penultimi nell’anima, la cui vita non è meno disastrata. E se, come dice il Vangelo: «beati gli Ultimi perché saranno i primi», per medesimo contrappasso, diciamo noi: «beati i Penultimi perché saranno i secondi». Almeno questo.



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