il dilemma delle correnti Anm

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Parlare di trattativa, per ora, è eccessivo. C’è casomai un guardingo gioco di scacchi. Il governo lascia intravedere ai magistrati, cioè all’Anm, disponibilità al dialogo. Non chiarisce in modo esplicito se ci sono aperture sui pochi punti negoziabili, come l’attenuazione del sorteggio da “puro” a “temperato”.

Nei colloqui riservati la possibilità non è esclusa. Anche se circolano interpretazioni confuse tra gli stessi leader del centrodestra. A cominciare dall’ipotesi per cui la modifica dell’estrazione a sorte per i togati dei due futuri Consigli superiori potrebbe essere differita, come l’introduzione delle “quote di genere”, a una legge ordinaria postuma, da approvarsi una volta che la legge costituzionale sulla separazione delle carriere sarà entrata in vigore.

È una soluzione fantomatica, inesistente, come ricordato sul Dubbio. L’attuale testo del ddl Nordio modifica l’articolo 194 della Costituzione con l’inserimento di un passaggio secondo cui i «componenti» togati dei due futuri Csm sono “estratti a sorte” tra “i magistrati giudicanti”, da una parte, e i “magistrati requirenti” dall’altra. Punto. Non si potrà scrivere, in legge ordinaria, che i sorteggiati in realtà saranno più dei posti disponibili nei due Consigli, in modo che dopo l’estrazione a sorte possa celebrarsi una competizione elettorale. Lo prevede, semplicemente, la logica. E la Costituzione non si presta, com’è ovvio, a interpretazioni illogiche, o forzate.

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In realtà l’idea di sacrificare il sì già ottenuto alla Camera – e cioè di modificare il ddl costituzionale di Nordio in modo che la lettura in corso al Senato diventi, di fatto, la prima “valida”, ai fini della “doppia navetta” – è sul tavolo di Palazzo Chigi, ma in modo un po’ ambivalente. L’idea è verificare se da parte dell’Associazione magistrati ci sarà, nell’incontro fissato per mercoledì prossimo, una pur minima “richiesta di trattare” proprio sul “capitolo sorteggio dei togati”. E al momento, il confronto del 5 marzo fra Giorgia Meloni, Alfredo Mantovano e Carlo Nordio, da una parte, e l’intera giunta Anm presieduta da Cesare Parodi, dall’altra, dovrebbe risolversi in un muro contro muro. Inesorabile seppur garbato, tenuto conto che stamattina, per esempio, proprio il neopresidente delle toghe ha ammesso, ad “Agorà” su Rai3, che il tentativo, in corso in Parlamento, di modificare le norme costituzionali sui magistrati, è «legittimo».

Sono distensioni nel linguaggio, ma prive di sostanza politica. Anche perché (come riferito con ampiezza in altro servizio del giornale, ndr) la Giunta esecutiva dell’Anm non ha un “mandato a trattare”. Non potrà manifestare, cioè, all’incontro con Meloni, interesse per altro che non sia il ritiro dell’intera riforma. Se viceversa la delegazione togata, a Palazzo Chigi, lasciasse intravedere una pur minima disponibilità al “disarmo” in cambio di un sorteggio temperato, tradirebbe il vincolo stabilito dal proprio “parlamentino” (al secolo, il Comitato direttivo centrale dell’Anm). Sarà quest’ultimo ad ascoltare, tre giorni dopo, il “report” della Giunta sulle eventuali proposte formulate dal governo Meloni e a decidere se sia il caso di accoglierle, o almeno di discuterle con la controparte. Tutto improntato al ritualismo più che a una pragmatica volontà di arrivare al dunque.
Eppure, al di là delle schermaglie, della partita di scacchi evocata all’inizio, lo spazio di manovra alla fine esiste: sul sorteggio temperato si può discutere. E qui la situazione, per l’Anm, si fa drammatica. Escludere del tutto un negoziato su quel passaggio, apparentemente marginale, del ddl sulle carriere separate significa andarsi a giocare il tutto per tutto al referendum confermativo. Se vincesse il No, e la separazione delle carriere si frantumasse al suolo come un cristallo piovuto dall’ultimo piano, festa grande, vittoria dei magistrati e dello status quo. Ma se invece, di qui a un anno o giù di lì, la consultazione confermativa sulla riforma Nordio ratificasse un testo identico a quello ora all’esame del Senato, verrebbe sancita la fine delle correnti. La loro trasformazione in mere associazioni culturali. Con la stessa Anm, di cui le correnti sono “azioniste”, svuotata di ogni forza politica.
Col sorteggio puro, tuttora previsto nel ddl sulla separazione delle carriere, le correnti non controllerebbero più le nomine o gli avanzamenti di carriera deliberati nei due futuri Csm. Non inciderebbero più sul “governo autonomo” della magistratura. La fine di tutto. La fine dell’Anm per come la conosciamo. Resterebbe il “sindacato” puro e semplice. In grado di discutere solo di carichi di lavoro, pensioni, e poco altro. Persino la dialettica sulle future riforme si ridurrebbe, per i magistrati, a una flebile e disarmata interlocuzione.
Al Csm, col sorteggio puro, ci sarebbero togati incontrollabili dalle correnti, salvo fortunose coincidenze (salvo cioè che, tra i 20 sorteggiati, saltasse fuori qualche magistrato già militante nei gruppi associativi). Le nomine sarebbero decise in base di logiche diverse da quella “appartenenza” che è il più delle volte il criterio per dirimere scelte fra aspiranti procuratori (o presidenti di Tribunale) di pari valore nell’attuale Csm unico. Uno scenario devastante.

Le correnti, l’8 marzo, dovranno decidere se giocarsi tutto. Correre il rischio che, con la vittoria del Sì al referendum, quello scenario post-atomico si realizzi. O provare intanto a incassare il “sorteggio temperato”, che lascerebbe ai gruppi associativi, e all’Anm in generale, qualche pur ridotta capacità di incidere: i candidati eleggibili estratti a sorte con un eventuale sistema temperato potrebbero essere sponsorizzati “ex post” dalle correnti, anche qualora fossero privi di pregresse militanze associative. Non sarebbe come oggi, certo, ma il potere di condizionamento sulle scelte consiliari non svanirebbe del tutto.
Ecco il dilemma attorno a cui l’8 marzo rischiano di consumarsi, fra i gruppi dell’Associazione magistrati, fratture anche drammatiche. Se si accettasse l’attenuazione del sorteggio, perderebbe sicuramente credibilità la battaglia da condursi contro la riforma durante la campagna referendaria. E a quel punto, senza la spinta polemica delle toghe e della stampa più sensibile alle loro ragioni, la vittoria del No alla riforma sarebbe difficilissima. Ma questo è. Accontentarsi di un minimo spiraglio di sopravvivenza. O fare “all in”, giocarsi tutto nelle urne.

La vaga possibilità che Meloni lascia intravedere può dividere il fronte: potrebbe insinuare dubbi in Magistratura indipendente, gruppo “moderato” e meno culturalmente distante dall’attuale maggioranza parlamentare. E già qui la mossa accennata da Palazzo Chigi è abile: può scomporre il fronte avversario e, in ogni caso, indebolirlo. Più che una partita di schacchi, sembra una lunga mano di poker. E bisogna vedere se i magistrati saranno capaci di accettare davvero la logica dell’azzardo.
 



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