Caso Cavallotti: giustizia al contrario. Assolti, ma confiscati

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La vicenda degli imprenditori Cavallotti (che a Palermo sono stati arrestati, processati, riconosciuti innocenti e comunque sottoposti a sequestro di aziende e beni) è ancora aperta, dopo 27 anni. Economicamente distrutti, hanno fatto ricorso per un risarcimento alla Corte europea. Che potrebbe sanare questo abuso e rivoluzionare il Codice antimafia.


Come una nuvola nera, l’ultima storiaccia di malagiustizia è partita da Palermo 27 anni fa. Da lì ha fatto un lungo giro alla Corte europea dei diritti dell’uomo a Strasburgo. Ora la nuvola sta tornando in Italia, verso Roma, dove finalmente potrebbe condensarsi in una pioggia purificatrice. La vicenda è quella dei Cavallotti, imprenditori del metano a Palermo, nel 1998 ingiustamente accusati di associazione mafiosa. I tre fratelli Salvatore Vito, Gaetano e Vincenzo Cavallotti furono sbattuti in carcere perché accusati da alcuni pentiti di fiancheggiare il clan del boss Bernardo Provenzano, e subirono una custodia cautelare di 30 mesi. Il calvario penale dei Cavallotti (la cui cronologia è riassunta nelle pagine successive) terminò 12 anni più tardi, nel dicembre 2010, quando la Corte d’appello di Palermo li assolse perché «il fatto non sussiste». Insomma, non erano né mafiosi, né fiancheggiatori dei clan: erano stati costretti a piegarsi alle pressioni estorsive di Cosa nostra, certo non facili da rifiutare. L’accusa, forse per la nettezza della sentenza, non fece nemmeno ricorso in Cassazione: così l’assoluzione, oltre che piena, diventò definitiva. La trafila giudiziaria però, non era terminata. Perché, nel dicembre 2011, su di loro piombò una nuova tegola, quella delle «Misure di prevenzione». La giustizia di prevenzione, disciplinata dal Codice antimafia varato in quello stesso 2011, corre su un binario parallelo e diverso dal giudizio. Il suo scopo è contrastare la criminalità organizzata con misure personali (come il divieto di soggiorno) e patrimoniali. Risultato? Anche se in sede penale i tre fratelli Cavallotti erano stati assolti, furono comunque qualificati come «pericolosi» e tutti i loro beni, dalle imprese alle case, fino ai conti in banca e alle automobili, furono posti sotto sequestro. La nuvola nera inghiottì ogni cosa. E lo stesso accadde in seguito alle imprese e ai beni dei loro figli, per quanto non indagati, perché i giudici della Sezione misure di prevenzione di Palermo stabilirono che la loro origine fosse «illecita». Prove di queste accuse? Nessuna. Indizi? Nemmeno. Ma così funzionano le Misure di prevenzione: non serve una condanna, non occorre nemmeno l’iscrizione al registro degli indagati. Basta la parola di un pentito, senza riscontri, o un rapporto di polizia. Basta perfino la «frequentazione di persone legate alla criminalità organizzata»: in un caso, anni fa, bastò che il malcapitato bazzicasse un presunto «bar di mafiosi». Subire un sequestro di beni per «mafiosità», insomma, non è poi così difficile: un po’ come rischiare la tortura o il rogo ai tempi della Santa inquisizione.

Nel caso dei Cavallotti non c’era nulla che giustificasse i sequestri. C’era, invece, l’assoluzione piena del 2010. E infatti la famiglia cercò di opporsi alla patente ingiustizia. In quegli anni, va ricordato, la sezione Misure di prevenzione del tribunale di Palermo era presieduta da Silvana Saguto, che la gestiva con pugno di ferro. Nel 2013 il sequestro dei beni dei Cavallotti di prima e di seconda generazione divenne confisca definitiva. Si sarebbe scoperto solo anni dopo che la giudice Saguto aveva trasformato la Sezione in macchina del malaffare: processata per corruzione e concussione assieme a una quindicina di co-imputati tra parenti, amici e alcuni degli amministratori giudiziari cui aveva affidato le aziende sequestrate (e spolpate), la magistrata nel 2019 è stata radiata dall’ordine giudiziario e nel 2023 è stata condannata a quasi nove anni di reclusione, anche se ora un nuovo processo sta rivalutando la pena.

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È vero che poi, nel 2019, la confisca dei beni dei Cavallotti è stata annullata, e che la Cassazione il 17 gennaio 2023 ha restituito le imprese ai legittimi proprietari. Il problema, però, è che le aziende sono state devastate: gli anni della gestione giudiziaria le hanno coperte di polvere e ruggine, cancellando un patrimonio di decine di milioni di euro, e il lavoro per alcune centinaia di dipendenti. Gli imprenditori siciliani hanno subìto vessazioni davvero paradossali. Pietro, il figlio di Gaetano, denuncia che tra i primi sequestri e la restituzione delle imprese «l’amministratore giudiziario, in virtù della legge, ha potuto tralasciare il pagamento di fornitori e tasse, anche se s’è ben guardato dal congelare i suoi compensi, 700 mila euro in tutto». Il problema è che ora l’arretrato fiscale ricade sui proprietari, tornati «legittimi» e in quanto tali – loro malgrado – divenuti contribuenti morosi.Nel frattempo, nel 2016 e nel 2019, i Cavallotti hanno presentato due ricorsi alla Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu). Per questo, ora, la nuvola nera incombe sul cielo di Strasburgo. Questa Corte è l’unico appiglio per un risarcimento. Ma è anche il punto di partenza per ogni possibile correzione delle abnormità delle Misure di prevenzione. La Cedu ancora non s’è espressa, ma i giudici considerano il caso «pilota» per la sua importanza, quindi il loro pronunciamento farà giurisprudenza. E anche l’Unione delle camere penali, l’organizzazione degli avvocati penalisti italiani, sensibile alle storture illiberali del Codice antimafia, è stata coinvolta dalla Cedu come «parte terza» nel giudizio.

I magistrati di Strasburgo hanno inviato al nostro governo una serie di quesiti sulla materia, per verificare se le Misure di prevenzione rispettino i fondamenti garantiti dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Hanno chiesto, i giudici, se la confisca dei beni dei Cavallotti sia stata motivata da una presunzione di colpevolezza (improbabile, vista l’assoluzione del 2010) o se, in caso contrario, sia stata violato il principio della presunzione d’innocenza; hanno chiesto anche se la confisca, causa Misure di prevenzione, sia stata applicata contro il principio di legalità, e se abbia comportato violazioni del diritto di proprietà. Gian Domenico Caiazza, che dei penalisti italiani è stato il presidente, sottolinea che tali quesiti, per come sono formulati, «fanno presagire un mutamento di orientamento della Cedu, finora indulgente verso le nostre norme» delle Misure di prevenzione. Pare ipotizzare una pronuncia sfavorevole per l’Italia anche una preoccupata interrogazione al ministro della Giustizia Carlo Nordio, scritta da Federico Cafiero De Raho, l’ex procuratore nazionale antimafia oggi deputato Cinque stelle (uno dei partiti più lontani da ideali garantisti), dove si legge che un accoglimento del ricorso significherebbe «la messa in discussione del pilastro fondamentale del contrasto delle mafie in Italia e in Europa». L’avvocato Stefano Giordano, il giurista palermitano che ha curato uno dei due ricorsi dei Cavallotti alla Cedu, scuote la testa: «Noi non tireremo per la giacca i giudici di Strasburgo», dice. Ora la parola tocca a loro. La speranza, per chi crede nello Stato di diritto, è che dalla nuvola nera che prima o poi arriverà sulla verticale di Roma possano discendere prescrizioni più rispettose dello Stato di diritto. E garanzie inviolabili per i cittadini innocenti.

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