Flannery O’Connor, quel firmamento genealogico e letterario

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Il venticinque marzo 2025 Flannery O’Connor, una delle più grandi scrittrici di tutti i tempi, avrebbe compiuto cent’anni. Non arrivò neanche a quaranta per via delle complicazioni di un lupus eritematoso sistemico, la stessa malattia che aveva ucciso il padre quando lei era ragazzina, ma in quella vita fulminante, a guardarci dentro, c’è materiale per l’eternità, a partire da un bizzarro amore per i volatili, soprattutto anatre, polli e pavoni, gli animali da cortile che razzolano ma poi volano verso una dimensione altissima, che chi guarda solo per terra è destinato a ignorare.

Poi, ancora: il Sud intessuto nella voce, il cattolicesimo vissuto come un laccio rosso al collo a segnare l’eccentricità della religione come adesione indiscussa, ma mai anteposta alla scrittura. «Per favore aiutami caro Dio», chiede O’ Connor, «a essere una brava scrittrice»: è la preghiera che Romana Petri sceglie come esergo del libro che ha scritto su di lei, un libro molto atteso La ragazza di Savannah (Mondadori, pp. 276, euro 19.50) non è pura documentazione né puro tradimento, è letteratura su letteratura, una storia che colma le lacune biografiche e illumina una vita intera da prospettive più insolite. È un romanzo di verità pieno dell’inventiva delle storie molto amate e molto sognate. Quanto sono reali le vite dei morti da cui siamo infestati? Di certo resteranno fino a quando, come in una fiaba, avremo esaudito il loro desiderio di non essere dimenticati.

ROMANA PETRI rivela radici certe e memoria solida quando scrive di scrittori, senza omaggi posticci, intercettando epifanie con naturalezza. Dopo il mito di Jack London (Figlio del lupo, 2020) e quello di Antoine de Saint-Exupéry (Rubare la notte, 2023, finalista al Premio Strega), per la prima volta si confronta con una scrittrice, pur se entrata in un canone universale.
Ameremmo allo stesso modo O’ Connor se non se ne fosse andata così presto? Probabilmente sì, considerata la portata rivoluzionaria di racconti di fronte ai quali sarebbe stato difficile chiudere gli occhi e la bellezza strabordante di un romanzo come Il cielo è dei violenti. Oggi è impossibile immaginare un laboratorio di scrittura dove i saggi di Flannery O’Connor sulla narrativa non siano consigliati come letture miliari: espressioni come andare «nel territorio del diavolo» o restare «sola a presidiare la fortezza» sono diventate sinonimiche della letteratura stessa, dell’andarsi a prendere una storia per trovarle uno spazio e inventare una forma.

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Ma chi era Flannery O’Connor? Romana Petri decide di non far cominciare la storia nel marzo di cento anni fa, non nel giorno della nascita dell’unica figlia di Edward e Regina Cline. Nella prima scena della Ragazza di Savannah la troviamo ragazzina, in lotta con un amico invisibile di cui non vuole rivelare l’identità finché, alla madre che la incalza, rivela che si tratta dell’angelo custode. «A scuola ci hanno detto che ognuno di noi ne ha uno che ci sta sempre accanto. Ti rendi conto? Io non lo voglio. Gli spacco la faccia, e poi vediamo se non cambia strada».

NON HA PAURA DELLE PAROLE la Flannery di Petri, anzi Mary Flan, come nel romanzo viene chiamata dentro casa – un nomignolo che non risulta da nessuna biografia ma suona credibile come i dialoghi diretti in cui la voce della scrittrice americana è nitida, efficace. Il padre di Mary Flan muore presto, il romanzo è incentrato sul rapporto esclusivo tra madre e figlia, innervato da un amore che non arretra, a volte aspro, sempre abituato all’incomprensione.
«Le madri sanno sempre tutto», dice Regina Cline alla figlia, e Mary Flan accetta l’ingombro della madre con la pazienza di chi si affida a chi tiene in mano il potere della cura e con la tenacia di chi è altrove, posseduto dal suo talento: «per quale motivo opporsi se era impossibile? Tanto valeva conservare le energie per la sola cosa che contava: scrivere». Mary Flan si lamenta di lei con le amiche, ma sotto sotto le è riconoscente, e da questo sentimento, da questa comprensione della madre come di tutti gli esseri umani, non può prescindere.

Romana Petri non cade nel cliché dell’infelice vita della scrittrice malaticcia; la sua Mary Flan è bella e volitiva, intimamente consapevole del proprio valore, della propria capacità di entrare nella grazia. Si adira e soffre quando nemmeno i cattolici la capiscono, detesta con tutte le sue forze la stupidità, è intransigente, scaltra, costruisce da sola la sua storia, cerca da sé la postura per sostenere l’amore non ricambiato, la stupidità degli altri.

QUANDO REGINA CLINE legge i libri della figlia, si sente stupida, una cattolica di serie b. Ma è davvero necessario capire chi amiamo? Presto si rassegna all’evidenza: ha partorito una creatura che appartiene al mondo più che a lei. Non si rassegna, invece, a doverle sopravvivere: quando la morte della sua Mary Flan si avvicina, quel tempo le appare solo un lungo, inutile supplizio. Le ultime pagine della Ragazza di Savannah sono strazianti nella loro limpida asciuttezza. È, questo, un bellissimo romanzo sull’indocilità del talento femminile, quindi è un romanzo di madri, di genealogie.

Romana Petri riconosce una grande madre letteraria, mostrandola nella grandiosità della sua vita, e lo fa partendo dal fantasma di una ragazzina del sud che voleva insegnare a un pollo a camminare all’indietro, il fantasma sfacciato e vitale di Mary Flan.



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