PALERMO – La vicenda è di quelle destinate a fare rumore. La Direzione distrettuale antimafia di Palermo vorrebbe confiscare il patrimonio del gruppo Mangia, colosso siciliano del settore turistico alberghiero.
In primo grado, lo scorso novembre, la sezione Misure di prevenzione del Tribunale ha bocciato la richiesta dando ragione agli eredi di Antonio Mangia. Ma la Procura insiste e ha fatto ricorso in appello. Il processo è ancora in corso. Mangia non ha alcun precedente penale. Mai è stato indagato o processato, né per eventuali legami con Cosa Nostra né per altri tipi di reato.
La replica di Mangia
“La proposta, a carico di soggetti e imprese terzi ed estranei a ogni addebito, è del tutto destituita di fondamento, come ha già riconosciuto puntualmente il tribunale di Palermo rigettando la proposta di sequestro per gli eredi di Antonio Mangia. Siamo certi che non ci saranno ulteriori conseguenze e nocumento per soggetti e aziende noti per rigore e trasparenza”, replicano gli avvocati Giovanni Di Benedetto, Fabrizio Biondo, Renato Canonico, Enrico Cadelo e Franco Di Trapani del pool di legali che difende gli eredi Mangia.
“Anomala scalata”
L’anno scorso i pm hanno avanzato la proposta di sequestro finalizzata alla confisca nella quale hanno ricostruito quella che definiscono “l’anomala ascesa imprenditoriale di Antonio Mangia il quale, nel giro di pochi anni (a partire dal 1973), da semplice lavoratore dipendente del settore pubblico è diventato, prima, titolare di una piccola agenzia di viaggi di Palermo e, successivamente, proprietario della Aeroviaggi spa, considerata il secondo tour operator italiano, nonché di quattordici strutture alberghiere di fama internazionale, site fra la Sicilia e la Sardegna (e, fino al 2007, anche a Parigi), accumulando un patrimonio oggi stimato in 320 milioni di euro”.
Il procuratore Maurizio de Lucia, l’aggiunto Marzia Sabella e il sostituto Francesca Dessì ritengono di avere raccolto le prove che Mangia sia stato “il riservato imprenditore di riferimento di Cosa nostra – e, in particolare, dei vertici dell’ala corleonese – nonché un soggetto che viveva abitualmente, anche in parte, con proventi di attività delittuose”.
Una linea che non ha trovato accoglimento da parte del Tribunale che ha bollato come “insussistente sia la pericolosità qualificata sia quella generica”. Secondo i pm, di fronte ad una corposa ricostruzione che abbraccia un lungo arco temporale, “il Collegio ha emesso uno scarno decreto, sostanzialmente privo di motivazione”, principalmente caratterizzato dalla quasi totale omissione delle risultanze di maggiore pregio e, di converso, dalla valorizzazione di dati irrilevanti”.
Si parla di “parcellizzazione, banalizzazione e superficialità” nella valutazione delle accuse. Sarebbero stati tralasciati fatti importanti e valorizzati aspetti secondari.
Le dichiarazioni di Di Gati
Sono tanti in punti con valutazioni opposte fra Procura e Tribunale. Alcuni più rilevanti di altri. Secondo l’accusa , Mangia avrebbe tutelato il capo mandamento di Sciacca, Salvatore Di Gangi, organizzando in suo favore di incontri riservati con altri latitanti. A parlarne era stato il collaboratore di giustizia Maurizio Di Gati.
Secondo il Tribunale, si tratta di fatti “risalenti” e “appare inverosimile” che Di Gati, “specie se si considera il ruolo di primo piano rivestito nella provincia di Agrigento, ossia nel territorio in cui il Mangia avrebbe operato quale imprenditore colluso con Cosa nostra” non lo abbia “sentito nominare da altri sodali, e non ci siano stati ulteriori contatti”.
Secondo l’accusa, pur non avendo mai formalmente appreso il nome di Mangia, Di Gati lo aveva comunque riconosciuto in foto e ricordava perfettamente l’autovettura che Mangia avrebbe usato “per accompagnare i sodali del Di Gangi nel covo ove costui si nascondeva”.
Il pizzino di Riina
Quando nel 1993 fu arrestato Toto Riina i carabinieri trovarono addosso al suo autista, Salvatore Biondino, un pizzino con la scritta “Signor Mangia, Aeroviaggi, forniture pesce (Sciaccamare)”. Il pizzino sarebbe statospedito da Di Gangi al padrino corleonese.
Avrebbe contenuto “la richiesta di Mangia di ottenere dirette indicazioni dal capo di Cosa Nostra al fine di individuare il fornitore di pesce per lo Sciaccamare”.
Il Tribunale ha ritenuto che anche volendo accogliere la ricostruzione della Procura ciò “sarebbe comunque compatibile con la figura di un imprenditore già messo a posto e che in ossequio alle regole imposte dall’associazione avesse chiesto il preventivo assenso del capo mafia, nell’ottica di un mero atteggiamento di connivenza e condivisione culturale di norme di comportamento dettate da Cosa nostra. D’altra parte neppure gli inquirenti ebbero a ipotizzare l’iscrizione di Mangia nel registro degli indagati ”.
Secondo la Procura, il Tribunale avrebbe frettolosamente liquidato la vicenda come se il più pericoloso dei latitanti fungesse “casella postale” per una ordinaria storia di pizzo.
La tesi dell’accusa
I giudici avrebbero trascurato “l’esistenza di un canale comunicativo tra il Mangia e il capo corleonese… come se il Mangia non vedesse l’ora di sottomettersi, e per giunta tout court, a Cosa nostra prima ancora di intraprendere un’attività, incerta nel se e nel quando del suo avvio”.
La Procura ha fornito una sua lettura sul pizzino. Non sarebbe stata una vicenda estorsiva, mai denunciata da Mangia, ma si riferiva all’amministrazione di un bene, il residence Sciaccamare, per il quale il Mangia “si muoveva al fianco di Cosa nostra, nella qualità di comproprietario e/o, comunque, di soggetto di massima fiducia dell’associazione mafiosa”.
La scalata imprenditoriale
Una fiducia che sarebbe stata costruita nel tempo. A partire da quando nel lontano 1973 per la sede dell’Aeroviaggi fu scelto lo stesso palazzo dove vivevano importanti mafiosi. Non sarebbe un caso che nella sua scalata imprenditoriale, segnata dall’acquisizione o dalla gestione di alberghi, Mangia abbia avuto a che fare con personaggi come Giuseppe Montalbano, socio di Torre Macauda (condannato per concorso esterno in associazione mafiosa), Pino Mandalari (il commercialista di Totò Riina) un tempo socio dello Sporting Club di Cefalù.
Ed ancora i Farinella di San Mauro Castelverde da cui Mangia prese in affitto per un periodo il Costa Verde di Cefalù, i Notaro di Ciaculli (parenti dei boss Greco) da cui prese la gestione del Cristal Palace di Palermo, i capimafia Graviano di Brancaccio un tempo proprietari occulti del San Paolo Palace anche questo per un periodo gestito da Mangia.
Secondo l’accusa, Mangia “investiva ingenti somme di denaro, molto verosimilmente di proprietà dell’associazione mafiosa, per la capitalizzazione di talune delle società riconducibili ai suoi componenti”.
“Nessuna intromissione mafiosa”
Di avviso opposto lo scorso novembre è stato il collegio presieduto da Gabriella Di Marco e composto anche dai giudici Ettorina Contino e Vincenzo Liotta, secondo cui “non risulta l’immissione di capitali illeciti nelle imprese di Mangia né è dimostrata alcuna forma di intromissione di Cosa nostra nella gestione delle attività imprenditoriale di Mangia”.
“Nessun tangibile contributo”
Ed ancora: “In un contesto obiettivamente segnato da rapporti di Mangia con soggetti legati da rapporti di parenterale ad esponenti mafiosi ovvero con soggetti contigui od organici alla consorteria mafiosa gli elementi rappresentati in proposta non lasciano tuttavia emergere in maniera sufficientemente uno stabile inserimento del predetto nel sodalizio o un tangibile contributo causale consapevolmente apportato all’organizzazione”.
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